di Roberta Pedrotti
Roberto Prosseda e Juraj Valčuha illuminano una lettura di Mendelssohn veramente tridimensionale per intelligenza e profondità; il direttore costituisce poi la vera ragion d'essere della programmazione della Seconda Sinfonia di Rachmaninov. Casi diversi, entrambi splendidi esempi dell'importanza dell'interprete per svelare o conferire valore a una partitura senza per questo soverchiarla in un eccesso di protagonismo.
BOLOGNA, 30 aprile 2015 - Un bel regalo ci viene dalla stagione sinfonica del Comunale di Bologna, che alla vigilia del Primo maggio sembra aver voluto deliberatamente rendere omaggio al lavoro artistico, all'impegno degli interpreti che da solo può valere una serata.
Non parliamo tanto, in questo caso, di artisti del coro, di professori d'orchestra, di tutti coloro che da dietro le quinte rendono possibile un concerto o un'opera. Certo, il pensiero nei confronti dello straordinario mondo quotidiano che unisce arte e artigianato è sempre vivo, e più che mai nell'occasione della festa dei lavoratori, ma lasciamo che in quest'occasione (nella quale non erano impegnati voci né altri solisti) siano portavoce del ruolo dell'interprete e del suo lavoro due musicisti in prima linea: il direttore e il pianista.
Parliamo di Juraj Valčuha e Roberto Prosseda, capaci di conferire interesse e valore a un programma di per sé non particolarmente indimenticabile; di motivare, quindi, l'ascolto soprattutto per il loro lavoro.
Non si tratta di un atteggiamento divistico che soverchia l'opera e l'autore, giacché nel primo caso, il concerto n. 1 per piano e orchestra di Mendelssohn, il lavoro degli interpreti ha permesso di render piena giustizia a una partitura dai pregi forse non pienamente riconosciuti. D'altra parte l'impegno di Prosseda si dipana su due fronti, quello dell'esecuzione e quello della ricerca e della divulgazione, con particolare attenzione proprio al mondo mendelssohniano. Che sia poi un musicista intelligentissimo lo dimostra anche la sua capacità e disponibilità all'ironia e al gioco musicale (come non ricordare la sua collaborazione con Elio? Leggi la recensione), saldamente ancorata a una tecnica pianistica di primissimo livello. Che gioia ascoltare dal vivo questo tocco così pulito, questo senso del legato, questa brillantezza cesellata con un gusto, una sensibilità, una cultura e un'acume incantatorii e illuminanti!
Valčuha è più di un accompagnatore, è un complice perfetto. Costruisce il concerto insieme con Prosseda, giocando fra tesi e antitesi, luci e ombre contrapposte: ne sortisce un Mendelssohn tridimensionale, perturbante e seducente, in cui la chiarezza luminosa di alcune frasi – delibate a meraviglia nel gesto fluido del pianista – e lo scintillìo perlaceo del virtuosismo si compenetrano in un tessuto orchestrale tanto limpido e definito nei dettagli e negli equilibri, quanto umbratile, denso nel fraseggio e nei colori. E, viceversa, quando la tastiera sfuma verso toni più meditativi, profondi, gli strumenti sanno suggerire una levigata leggerezza. O, ancora, incontrarsi, solo e assieme, in una comunione di luci o turbamenti. Sempre in un perfetto, proteiforme equilibrio, in un continuo divenire dialettico misurato alla perfezione. Ecco dunque che possiamo ammirare la natura colta e complessa del giovane Felix, la sua affinità con Goethe, la sua sensibilità innamorata del classico e, si direbbe proprio per questo, non impermeabile a nostalgie, suggestioni e sentimenti stürmer e protoromantici, sguardi acuti e audaci lanciati verso il futuro.
Intrigante in tal senso anche la scelta dei bis, con un Notturno di Chopin accostato a una delle versioni del Venezianisches Gondellied dai Lieder ohne Worte di Mendelssohn, pezzo di bellezza assieme elegante e visionaria.
Dopo l'intervallo è la volta di Rachmaninov e sulle spalle del solo Valčuha grava una diversa responsabilità: se prima si trattava di render giustizia a un autore più profondo e complesso di quanto non si soglia pensare, ora si tratta di condurre in porto una partitura che tutto può essere tranne che un capolavoro. Musica non bella, poco ispirata, di scarso interesse, in cui però si dimostra tutto il valore del direttore che salva frasi di per sé predestinate, si direbbe, ai più melensi e scontati abbandoni; che controlla con autorità i momenti più superficialmente esuberanti per ricondurli nella misura di un virtuosismo orchestrale privo di ridondanze inutili. Valčuha dissipa la sensazione, che parrebbe insopprimibile, che si tratti semplicemente di musica progettata per piacere, allettare i pubblici e l'ego degli esecutori. Anzi, la forza della sua lettura consiste proprio nel non cedere alla retorica, al divismo del podio, rendendosi invece protagonista in virtù del rigore, del senso della misura, della capacità di non tradire la natura della sinfonia, il suo florido tardoromanticismo pago di se stesso, impegnandosi nel far suonare al meglio l'orchestra (e, davvero, la prova è rilevante, superiore alla media tranne per un piccolo cedimento del corno), nel mantenere sempre una compattezza nella quale le diverse voci, i timbri, le dinamiche restano comunque netti e definiti, nell'articolare al meglio ogni frase, ogni sfumatura, nel dare consequenzialità al testo. Che bello non sarà, ribadiamo, ma proprio per questo, privo della forza per emergere da solo in ogni caso e tessitore d'insidie per le bacchette più autoreferenziali e meno sottili o autorevoli, mette perfettamente in luce le doti del musicista; doti che Valcuha possiede in doviziosa copia e che non si limita a sfoggiare, ma mette a frutto centrando perfettamente il bersaglio, senza distrazioni.
E infatti gli applausi finali sono fra i più calorosi.