di Carla Monni
La quarta edizione del Torino Jazz Festival è stata inaugurata dal Sonic Genome, l'utopistico progetto di uno dei compositori più importanti del nostro tempo, il pluristrumentista, musicologo e matematico, esponente dell'avanguardia jazz afroamerica e ai tempi membro dell'Aacm di Chicago, Anthony Braxton.
Torino, 28 maggio 2015 – Il Torino Jazz Festival, arrivato alla sua quarta edizione e diretto anche quest'anno dal musicologo Stefano Zenni, ha proposto e tuttora propone una miriadi di appuntamenti ramificati in diversi punti di ritrovo della città piemontese. Piazze, circoli, locali, jazz club, cinema, ma anche gli angoli più suggestivi di Torino, come le rive del Po, ospitano i numerosi concerti e tutti gli eventi collaterali del festival, dalle proiezioni di pellicole rare e di cortometraggi, alle presentazioni di libri, ma anche conferenze, laboratori, esibizioni coreutiche e brunch musicali. Un ricchissimo programma mirato non solo al cultore e all'appassionato di jazz ma – perché no – anche al turista trovatosi a visitare la città o al pubblico dei più piccoli a cui sono state dedicate diverse iniziative, come l'evento Jazz Cartoons al Circolo dei Lettori, una lezione-concerto incentrata sul jazz e i cartoni animati.
A dare il via al Torino Jazz Festival 2015 è stata la prima assoluta europea della complessa “opera” Sonic Genome, nonché la terza mondiale – le prime due sono state eseguite nel Connecticut e in Canada a Vancouver – del chicagoano Anthony Braxton. La formula rimane la stessa: durante la performance, della durata di otto ore, circa 100 musicisti, divisi in vari gruppi, improvvisano su diverse composizioni braxtoniane in ambienti pubblici, quali musei, biblioteche, piazze, circolando insieme al pubblico nello spazio e avendo la possibilità di sganciarsi e associarsi liberamente tra loro. Per la prima europea, prodotta dal Torino Jazz Festival e dalla Fondazione Museo Egizio, i musicisti – provenienti da tutte le parti d'Europa e appartenenti a molteplici estrazioni stilistiche – erano settanta, distribuiti in dodici gruppi, composti dai quattro ai sette elementi, i quali hanno animato le affascinanti sale del Museo Egizio torinese, il più importante al mondo dopo quello del Cairo. Ogni formazione era composta dai più svariati strumenti – voci, chitarre, sassofoni, contrabbassi, diamoniche, percussioni, trombe – e qua e là si intravedevano anche un clarinetto basso, un flauto, un'arpa, un violoncello, un violino e un un basso tuba. I settanta musicisti partono inizialmente insieme, disposti frontalmente in fila al piano più alto del museo, su una sorta di galleria affacciata sulle teche in vetro che custodiscono reperti egizi, fra le quali si affolla il pubblico. L'attacco ai musicisti viene dato da Taylor Ho Bynum il braccio destro di Braxton, mentre il compositore ascolta attento al “primo” suono generato che si rafforza sempre maggiormente fino a dipanarsi in tutta la sala. Al cambio di accordo lentamente i singoli ensemble si separano, e ognuno, capitanato da un leader collaboratore di Braxton, inizia a scendere e a circolare per l'intero Museo. I musicisti itineranti col proprio strumento tra le mani e sulle spalle uno zaino con leggii e partiture, si muovono rispettando un percorso e dei movimenti stabiliti da una coreografa, e all'occasione, in determinati orari si ricompongono con gli altri gruppi. Ma – forse un po' per caso – le formazioni spesso si sovrapponevano tra loro, come spesso è avvenuto nella cavea formata dalle scale marmoree del museo, in cui la discesa e la salita intrecciata dei singoli gruppi, è stato un motivo di spunto per attingere alle sonorità degli altri e per poterle dunque potenziare o sviluppare nuove idee stimolanti.
Al pubblico che ha condiviso lo spazio degli artisti – i quali si muovono attorno a sfingi, sarcofagi e statue monumentali di faraoni e divinità – è concessa la scelta di seguire e ascoltare l'uno o l'altro gruppo. Secondo la concezione del compositore gli spettatori fanno dunque da friendly experiencers, ovvero partecipanti attivi dell'esecuzione. È chiaro comunque che lo spettatore fosse impossibilitato ad assistere alla performance nella sua totalità, ma ha potuto in ogni caso studiare i passi codificati, scorgere la partiture che gli strumentisti estraevano non appena si posizionavano a suonare nei suggestivi distretti museali, e ammirare il vocabolario di segni e gesti ideografici tipici della conduction braxtoniana. Affidati ai leader, questi segni servono a suggerire istantaneamente al proprio ensemble la realizzazione di un preciso fraseggio o ritmo e di articolare il suono in un certo modo, manipolandone dunque l'altezza, l'intensità, il timbro e la durata. Ma è l'elemento ritmico ciò che è più importante per Braxton, e dunque l'insieme, nonché la modalità in cui lo strumentista esegue quel determinato gesto ai fini del suono che concepirà. Alla fine degli anni '60 il compositore si chiese come potesse costruire un'improvvisazione senza riferimenti formali prestabiliti. Escogitò dunque dodici gesti sonori, language types – basati su criteri di durata, attacco, articolazione, sonorità, curva melodica – a cui corrispondono simboli grafici che indicano per esempio un suono lungo o un suono lungo accentato, i trilli, gli staccati, le forme intervallari o legate. Questi dodici tipi di linguaggio appaiono come un vero e proprio ampliamento della direzione d’orchestra tradizionale.
Le molteplici composizioni consegnate ai musicisti – se ne contano circa duecentoquaranta pagine – sono partiture tratte dal repertorio per strumento solo, per orchestra e per quartetto d'archi, e che in questo contesto vengono indistintamente affidate e distribuite ai più svariati strumenti. Sono composizioni non titolate, bensì numerate, e ricche di simboli e segni, inseriti in determinati punti della partitura, come all'inizio la figura romboidale indicante la diamond clef (chiave di diamante), che suggerisce il “suonare così come è scritto”. Le note procedono “libere” senza alcun ritmo, alcuna altezza e nessuna stanghetta di battuta che le frazioni. Il direttore ne decide la pulsazione ritmica, che in partitura è sempre sull'uno. Tra le alterazioni troviamo invece l'immagine di una stella, un simbolo che permette al musicista di scegliere in che modo alterare quella determinata nota, per esempio bemollizzandola.
La miriade di parti eseguite durante le otto ore compongono quella che Braxton chiama Ghost Trance Music, che comprende tre tipi di composizioni diverse. Il primo tipo, come la Composition 219, da un punto di vista compositivo e grafico è quello che si presenta più scarno. Le note procedono senza alcuna altezza determinata e ogni tanto tra l'una e l'altra si scorgono alcuni segni, come la circonferenza che delinea un'apertura o il quadrato che invece sottolinea la necessità per il musicista di leggere o ancora il triangolo (unlock) e il triangolo rovesciato (lock). Queste composizioni si eseguono dall'inizio alla fine oppure a partire da un certo punto, e la preferenza è a discrezione di chi dirige. Il secondo tipo, come la Composition 339, è caratterizzato da gruppi ritmici regolari e da linee che indicano l'andamento grafico della melodia. Le pause sono evidenziate da una freccia obliqua a doppia punta. Il terzo tipo invece è una commistione del primo e del secondo, come la Composition 255. Tutti e tre i tipi presentano delle secondary composition, ovvero composizioni a tre voci armonizzate, che si eseguono a loop, nella maniera il più possibile verticalizzata. Non sono comunque mancati brani decisamente più “melodici”, un esempio è Joreo's Vision of Forward Motion, meglio conosciuto come Composition 126, tipicamente classica.
Alla base della poetica del Sonic Genome c'è principalmente un concetto di composizione che tende a sgretolarsi e poi a ricongiungersi. I dodici gruppi suonano inizialmente insieme per poi dividersi nei vari ambienti e infine ricomporsi. Alla soglia infatti delle due di notte, tutti i musicisti si sono riuniti all'entrata del museo, raccogliendosi ammassati a cerchio. Piano piano la musica si è fatta sempre più lieve, concludendo con l'ultimo suono di un singolo strumento. Braxton, da matematico e ricercatore quale è, ha realizzato un'“opera” – se così si può chiamare – risultata uno degli esperimenti più ambiziosi e visionari del secolo. Una performance razionale e irrazionale insieme, dove le regole convergono con la “poesia” braxtoniana; un'impresa olistica e aleatoria, che mira, a detta dell'autore, a un "suono mondiale vivente”. Steve Smith sul New York Times così ha descritto la musica di Braxton: "più che di una strategia compositiva, si tratta di un modello utopico per una democrazia ideale".
Foto @Museo Egizio (ph Letizia Toscano) © Torino Jazz Festival