di Francesco Lora
Joie de vivre, illusione, sarcasmo, annullamento: lo Schubert di Zimerman è professione artistica quasi letteraria e luminosamente romantica nelle Sonate D 959 e D 960.
BOLOGNA, 2 giugno 2015 – Essere riferimento di signorilità artistica nell’epoca che premia i musicisti saltimbanchi: Krystian Zimerman lo rimane sempre, anche e soprattutto quando la serata lo trovi sorridente, generoso, indulgente, disposto a ritoccare i suoi desiderata ferrei e l’assetto monumentale del programma. A Bologna, nel Teatro Manzoni, per Musica Insieme, accetta di porre le mani non sul pianoforte personale che lo segue ovunque, ma su quello della casa, ponendosi alla pari di innumerevoli colleghi illustri; ringrazia con un cenno cordiale del capo lo sprovveduto gruppetto di neofiti che lo applaude tra un movimento e l’altro; vivaddio, ha l’attenzione rivolta non ai detestati smanettatori di telefonini e registratori, ma in alto. Molto in alto: verso Franz Schubert e le sue monumentali due ultime sonate, la D 959 in La maggiore e la D 960 in Si bemolle maggiore; quaranta minuti e quattro movimenti ciascuna, la massima alternativa all’egemone Beethoven, il testamento poetico di un genio che, tradotto dalla carta scritta al vivo suono, ha la stessa perfezione e delicatezza delle ali di una farfalla.
I monumenti non concedono spazio dopo di sé. Così Zimerman premette all’intero programma il possibile encore: le Sette variazioni facili in Sol maggiore di Schubert stesso, lavoro di un adolescente appena, chiarissime di senso nella loro relativa semplicità, divengono però assai più che una concessione, una retrouvaille, un divertimento; divengono cioè l’impensato preludio alla D 959, con una iunctura quasi immediata, dapprima serena, poi diretta in un lampo nell’universalità di materiali e pensieri dello Schubert estremo. Dal contrasto escono moltiplicati la joie de vivre, l’illusione, il sarcasmo, l’annullamento della mente superiore in un linguaggio che non si presta alla condivisione senza sforzo. Questa rivista ha già riferito dei medesimi programma e pianista, a proposito della serata imolese del 22 maggio; mentre questa recensione prende forma, chi scrive scopre che la firma di Roberta Pedrotti è stata investita dalla stessa suggestione: lo Schubert di Zimerman come professione artistica quasi letteraria, puro Giacomo Leopardi fatto musica.
La variatio sintattica del compositore, con quelle ricorrenze tematiche rigenerate a ogni passo, è pronunciata dal pianista nel nome dell’imprevedibilità sintattica e del senso tolto dal dettaglio insospettato, quando nel contempo molti altri stanno emergendo e trovando pari cura. Mano destra e mano sinistra si allontanano per esplorare vie diverse, e le dita stesse paiono condurre tanti discorsi quante esse sono. Si ascoltano, per così dire, versi sciolti con tutta la loro mobilità accentuativa, gli enjambements audaci che paiono volerli slegare in prosa d’arte, la carica informativa ed emozionale di un testo sovrabbondante eppure di olimpica limpidezza. È il Romanticismo di chi è cresciuto con Metastasio aperto sotto gli occhi. Eleganza somma nel gesto piccolo: per esempio quando, nel lancinante secondo movimento della D 959, una nebulizzazione di armonici aleggia su tutto, ma il pianista riduce al minimo l’alone del pedale, e segmenta le frasi in porzioni asciutte e lievi, spesso non più che il mero portamento tra due note. Il vuoto non fa paura.
Sbaglia chi dia facile spiegazione dello spartito sempre aperto sotto gli occhi di Zimerman. Non è un soccorso alla memoria. Piuttosto, è un testimone immanente delle speranze deluse di Schubert, della fortuna editoriale mai arrivata in vita, della fruizione dell’idea vertiginosa attraverso un codice che ostacola e condiziona. Così, a ogni voltata di pagina giunge l’occasione per staccare dalla tastiera non una sola, ma anche entrambe le mani; è l’occasione per sospendere il discorso, per meditare tra un pensiero e l’altro, finché la nuova carta non è stata ben aperta, finché la prima sentenza non è stata assimilata dall’ascoltatore e finché la nuova non è stata soppesata dall’oratore. Rigore interpretativo senza che venga meno il palpito della lettura; semplicità di esposizione senza che una stessa risorsa sia interpellata per più di una sola volta. Zimerman alimenta il suo dèmone nell’impercettibilità di un’esitazione agogica o di un bagliore timbrico. Anche quando l’ultimo accordo cali focoso con il pianista già scattato in piedi tra gli applausi.