di Stefano Ceccarelli
Il secondo appuntamento della sua tournée romana vede Krystian Zimerman impegnato nel Concerto in re minore per pianoforte e orchestra op. 15 di Johannes Brahms. Assieme a lui, sul palco, un direttore d’orchestra finlandese emergente, Mikko Franck, che presenta la Sinfonia n. 6 in si minore op. 74 di Pëtr Il’ič Čajkovskij. Il concerto di Brahms è semplicemente strepitoso, dimostrando – ancor che ce ne fosse necessità – lo stato di grazia del polacco. Il Čajkovskij di Franck, benché sentito, non è né raffinato né profondo.
ROMA, 15 giugno 2015 – Mancava da sette anni (se si esclude la tournée europeadi Pappano del 2011) il Primo concerto per pianoforte e orchestra di Brahms dal cartellone dell’Accademia di Santa Cecilia, da quando Pappano diresse a Roma Pollini nel 2008, uno dei grandi interpreti che hanno fatto rivivere questa giovanile partitura brahmsiana proprio all’Accademia. Elencarli sarebbe ozioso: ma come non nominare fra i pianisti, almeno, Rubinstein (1933), Horowitz (1934), Kempff (1952), Serkin (1963), Ciani (1970), Lupu (1976) e proprio Zimerman, che l’ha già eseguito qui nel 1996 sotto l’eccellente orchestrazione di Carlo Maria Giulini. Un trionfo quasi atteso, ancor prima dell’esecuzione. E così è stato, inevitabilmente. L’energia, il senso perfetto del ritmo, la capacità camaleontica di amalgamare il pianoforte all’orchestra, accompagnano Zimerman per tutta l’esecuzione. E lo si può ben vedere fin dal mastodontico I movimento (Maestoso), dove l’intesa fra Franck e Zimerman è ottima. Il polacco intende un pianismo con buona dose di magniloquenza, ma mai strappato, né violentemente percussivo, sempre attento alla tornitura del suono; i momenti più lirici sono imperlati dal suo tocco fatato; è incredibile, inoltre, la sua capacità di far sorgere un crescendo quasi dal nulla, con estrema facilità. L’Adagio (II) è tutto giocato sugli effetti timbrici tra i vari strumenti e la tastiera: e, dunque, qui Zimerman può farci gustare appieno il suo naturale talento di creatore di atmosfere soffuse, pacate. La cadenza, poi, è un piacere assoluto all’ascolto: lo slancio aquatico degli eterei arpeggi, quei trilli cesellati con millimetrica precisione, sotto effetti organistici di pedali. L’Allegro non troppo finale (III) vede il concorso di un volume notevole d’orchestra, scandito dai gai interventi del pianoforte; è ancora una cadenza il momento più magico, con Zimerman che inanella un trillo acuto con la destra, continuando a leggere lo spartito con la sinistra, donandoci un effetto virtuosistico mirabolante. Il vitalismo del movimento è anche imperniato sui tripudi di scale. Al termine, Zimerman accoglie, con far timido, uno scroscio potentissimo di applausi.
Il secondo tempo è dedicato alla “Patetica” di Čajkovskij. Mikko Franck l’ha già incisa con la Swedish, dunque conosce molto bene la partitura. Una partitura, peraltro, il cui fascino non fu compreso fin dall’inizio, benché Čajkovskij fosse all’apice assoluto della sua fama. Giudizio che fu presto abbandonato: testimonianza ne sono le numerose riprese novecentesche. All’Accademia di Santa Cecilia è eseguita quasi ogni anno dal 1908; l’elenco delle bacchette che l’hanno presentata al pubblico romano ispira un rispetto reverenziale alla sola cursoria lettura: Mascagni (1909 ecc.), Mahler (1910), Stokowski (1923), De Sabata (1946), Kubelik (1950), Jochum (1951), Kleiber (1951), Celibidache (1954), Maazel (1955), Prêtre (1962), Barbirolli (1966), Sinopoli (1988), Temirkanov (1989), Chung (1998) e Pappano (2009 ecc.). Peccato manchino alcuni grandi nomi che hanno letto finemente e personalmente questa partitura: andando a memoria, direi certamente Bernstein, Karajan, Solti e Klemperer. La versione presentata da Franck ha qualche pregio e alcuni difetti; difetti, peraltro, non certo imputabili all’incredibile versatilità e bravura dell’orchestra dell’Accademia, che al solito si produce in un ottimo suono e dà il meglio. Ma vediamo attentamente. Fin dall’Adagio cupo, guardingo che apre la composizione, Franck propone una direzione troppo declamatoria, poco sentita o intimista – gioca troppo a tirar via. Avrebbe potuto sfruttare assai meglio la timbrica, nòcciolo dell’avanguardia di Čajkovskij; troppo marcata, inoltre, l’agogica. Meglio nel successivo Allegro non troppo (che conclude il I movimento), anche se mi sembra abbia abusato del punto coronato precedente l’esposizione del tema principale. Quando porta l’orchestra al culmine dinamico gestisce molto bene le masse e la compattezza sonora; nella ripresa del tema addolcisce, per fortuna, qualche tratto. Anche mimicamente, conferisce sempre più l’impressione di immergersi nel pezzo: conduceva seduto, ora lo si vede quasi entrare in piedi fra le compagini di strumenti. Mimica più che altro esornativa, che però non corrisponde, a mio avviso, a un suo reale immergersi interpretativo nella partitura. Il II (Allegro con grazia) va meglio, ma ancora si fa prendere la mano e le dinamiche sono troppo periclitanti verso zone di sforzato non richieste né, penso, volute dall’autore. Però il senso coreutico del «valzer indanzabile» (N. Campogrande, dal programma di sala) scorre deciso fra le maglie di un’agogica limpida. Anche il III (Allegro molto vivace) riesce nella sua completezza, con timbri ben sgranati; ma ancora si trovano parti troppo appesantite nella lettura – neanche fossimo in una sinfonia di Šostakovič! L’ultimo movimento (Adagio lamentoso) parte egregiamente con un attacco incisivo degli archi assieme al lamento dei legni. Ma poi, ancora, Franck calca troppo la mano con dinamiche intense, anche se certi respiri che dona alla partitura sono d’effetto. Il finale non è certo in pppppp come prescritto dalla partitura. Come che sia, alla fine il pubblico applaude contento e arrivano complimentosi «bravo!», segno che il tutto è comunque piaciuto ai più.