di Roberta Pedrotti
Prima edizione per il festival dedicato al grande castrato Giovanni Carestini dal borgo natìo, Filottrano, nell'incanto dell'entroterra marchigiano.
Si dice spesso che in Italia non siamo in grado di valorizzare le nostre risorse artistiche e culturali. In parte è vero, ma bisogna anche riconoscere che un'abbondanza come quella di cui disponiamo, un affollarsi archeologico, architettonico, figurativo, letterario, musicale, naturalistico, enogastronomico di questa portata non sia propriamente facile da gestire e rischi di rivelarsi un'arma a doppio taglio, una ricchezza che soffoca se stessa nell'imbarazzo della scelta.
È facile trovare, praticamente in ogni sito, un gioiello da valorizzare, ma ci vuol coraggio, oltre che capacità, perché cogliere le opportunità che il nostro Paese offre significa anche assumersene la responsabilità. Il festival Sulle orme del Cusanino di Filottrano (AN) sembra, da questo punto di vista, partito con il piede giusto, guardando alla musicologia, al rigore e alla riscoperta come alla varietà delle proposte e al coinvolgimento del pubblico e alla valorizzazione del territorio in tutte le sue potenzialità. D'altra parte Filottrano non si fregia solo i natali dei Giovanni Carestini (1700-1760), il Cusanino, soprano castrato fra i più importanti del XVIII secolo, ma anche di memorie storiche dai ritrovamenti celtici alla battaglia del 1944 lungo la Linea Gotica. Senza trascurare un panorama mozzafiato, su campi di girasoli e colli a perdita d'occhio fino al mare al promontorio del Conero e tutti i pregi, culinari e non solo, delle Marche. Vanta anche uno staff affiatato, con l'apporto logistico di eccezionali volontari, sponsor ben felici di partecipare anche solo (si parva licet) fornendo ospitalità, vitto, vetture. Insomma, tutti ci credono e ci mettono l'anima: il miglior punto di partenza, soprattutto se si può contare sulle potenzialità del delizioso borgo dell'entroterra anconetano.
Il direttore artistico Antonio Pirozzi, insieme con l'amministrazione comunale e con il Comitato scientifico del nascente Centro studi Carestini, ha dato vita a un programma dalla doppia anima, intima e riflessiva, estroversa e comunicativa, che si apre con un intenso fine settimana inaugurale, con doppio concerto, tavola rotonda musicologica e consegna ad Aris Christofellis del primo Premio Cusanino [VIDEO].
Doppia inaugurazione, dunque, con due concerti diversissimi e per certi versi complementari.
Si comincia, l'11 luglio, con un aperitivo musicale più intimo, nel palazzo del municipio che man mano si gremisce fino a lasciare parte del pubblico – davvero di ogni età, anche la più tenera – ad assistere in piedi. L'ingresso, è vero, è libero, ma si tratta pur sempre di un concerto per clavicembalo solo a spaziar fra Andrea Antico da Montona (1470/80-1540), Marco Antonio Cavazzoni (1485/1569), Giovanni Picchi (1471-2/1543), Peter Philips (1560-1628), Gerolamo Frescobaldi (1583-1643), Alessandro Scarlatti (1660-1725). Un tale afflusso non era scontato, non, sulla carta, l'attenzione tesa sul filo del rasoio, tanto che, mancando il suono di un minimo sospiro in sala, la vibrazione metallica delle corde pizzicate trova una simpatia curiosa, ma non fuori luogo, con la frizione delle gambette dei grilli fuori dalla finestra aperta (e forse mescolati alle cicale, non ho studiato entomologia). L'occasionale rombo di un motore in piazza, più che sciupare la serata, ci fa apprezzare il pronto intervento delle autorità locali per garantire il silenzio attorno ai luoghi dei concerti.
Il clavicembalo sotto le dita di Andrea Coen ci offre un prezioso saggio dell'attualità prepotente e, quasi, provocatoria, della musica di tre, quattro, cinque secoli fa. Quanto è, infatti, miope e superba una formazione musicale che educhi, consciamente o inconsciamente, l'orecchio a sistemi di riferimento e sintassi sonore che, a ben guardare, hanno regnato per nemmeno centocinquant'anni, se vogliamo segnare la data di nascita dell'armonia classica nel trattato di Rameau del 1722 e la sua capitolazione con il debutto di Tristan und Isolde nel 1865! Il razionalismo filosofico e il positivismo potevano anche inseguire la chimera di un'architettura sonora perfetta secondo indiscutibili principi naturali, ma perseguire ancora questi spettri evanescenti dovrebbe essere, oggi, un'utopia priva di fondamento. Infatti la musica d'arte, quella vera, da ben oltre un secolo esplora e vìola tutti i confini che poniamo agli equilibri sonori, ci pone problemi, sfide, nuove frontiere. Tuttavia, non si tratta di atteggiamenti sempre e solo nuovi, ma sovente di riscoperte di ciò che l'egemonia temperata e tonale aveva, almeno in superficie, soffocato. La modalità non muore mai. Altre accordature possono riemergere dal passato e offrirci un nuovo stimolo a liberare l'ascolto dai pregiudizi e scoprire nuove sfumature e possibilità del discorso musicale. Dunque, suonare un cembalo con accordatura mesotonica vuol dire sollecitare il pubblico, rinnovare un'esperienza attiva d'ascolto, accendere l'attenzione su intervalli che fanno parte del linguaggio e del colore originale dei brani, ma che le “normalizzazioni” classiche avevano offuscato, se non distorto. Significa restituirci un repertorio antico molto più vicino a noi, per libertà e suggestioni sonore di quanto spesso, pigramente, non si pensi.
Il titolo del recital “Cercar l'affetto” non suggerisce, allora, solo il dipanarsi delle varie declinazioni espressive rinascimentali o barocche, ma la ricerca sonora che è alla base di questa espressione e di questo sistema retorico.
La seconda inaugurazione, il 12 luglio, è, si può dire, speculare e complementare. In primo luogo per il contesto, che passa dal raccoglimento del palazzo comunale, allo spazio aperto del teatro di Verdura della splendida Villa Centofinestre (dove davvero il tempo sembra essersi fermato all'epoca di Napoleone e della Restaurazione). Da un lato un sofisticato programma per cembalo solo, con autori per lo più ignoti o quasi al grande pubblico, dall'altro il richiamo ammiccante “Da Monteverdi a Mina” con un organico più ricco, comprendente anche una voce. E, in effetti, l'esuberante spettacolo all'aperto del gruppo Soqquadro italiano sembra proprio il benvenuto vivace ed eclettico di un festival che vuol coniugare e affiancare la ricerca sofisticata al coinvolgimento di un pubblico più vasto, sia di turisti sia di locali, coinvolgendo sempre e comunque artisti di livello. L'obbiettivo è subito raggiunto, perché anche il parco è pieno oltre ogni più rosea previsione. I componenti del gruppo son poi tutti musicisti titolatissimi che compaiono regolarmente nei maggiori complessi barocchi internazionali (Luciano Orologi, sax e clarinetti, Simone Vallerotonda, tiorba e chitarra barocca, Lorenzo Feder, clavicembalo, Simone prando, contrabbasso, e Gabriele Miracle, percussioni, animati da Claudio Borgianni) e qui si divertono a mescolare le carte e gli stili, spruzzando di oriente, jazz, modernità più o meno leggera la loro prassi su strumenti antichi. Magari all'aperto, nonostante l'amplificazione, quelle che potrebbero essere le preziosità idiomatiche dei singoli strumenti si disperdono un po', essendo così delicato il gioco di rimandi fra il canto a cavallo fra XVI e XVII secolo e quello intorno agli anni '60 e '70 del XX. Un gioco certo possibile, e aperto a mille diverse strade, più o meno sofisticate, più o meno d'effetto. Il concetto resta quello della contemporaneità di tutta la musica, del sottile filo rosso che unisce la storia del canto, le declinazioni espressive della voce. Ci può essere il rischio di mescolare un po' troppo le acque, sì da far perdere identità a questo o quel brano senza sempre conquistarne una nuova altrettanto convincente, ma è proprio per il rischio che val la pena di giocare. Se fossimo certi dell'esito, le sfide non sarebbero tali e perderebbero d'interesse. Il concerto è congegnato praticamente senza soluzione di continuità, il pubblico è coinvolto e contento, i musicisti tutti di qualità. Anzi, trovandoci nell'ambito di una rassegna dedicata a un castrato, un discorso a parte lo merita il cantante, Vincenzo Capezzuto, che completa la terna di voci nel cartellone del festival con Christofellis (soprano, ma ospite d'onore ascoltato solo in incisione) e Raffaele Pe (contralto molto attivo fra opere e concerti, impegnato in un recital). Capezzuto non ha impostazione lirica, cosa che non gli impedisce di affrontare anche la canzone antica, forte di un'ottima musicalità e di un'emissione ben gestita. Il registro è sopranile, mezzosopranile al massimo, ma il colore non femminile, né equiparabile a quello dei cantanti maschi leggeri avvezzi al falsetto o al cosiddetto "whistle register".
Pensiamo allora alla doppia valenza della voce del castrato (o, almeno, dell'idea e del mito che si è formato di essa), ipersessuata perché assomma in sé maschile e femminile, ma anche asessuata, né di maschio né di femmina. La voce di Capezzuto restituisce, anche in un programma che poco o nulla ha a che fare con i repertori dei vari Farinelli, Carestini e Crescentini, proprio questa suggestione angelica, sul crinale fra astrazione e turbamento.
Questo resta il maggior interesse della serata, un saggio ulteriore delle possibilità della voce umana al di là dei confini della definizione di genere. E dei generi.