di Roberta Pedrotti
Ian Bostridge con il pianista Julius Drake interpreta la Winterreise per gli Incontri in terra di Siena 2015. Un acutissimo viaggio intellettuale nella molteplicità di una psiche infranta intrapreso con la libertà spregiudicata del Sublime delineato dall'anonimo trattatista ellenistico.
CITTA' della PIEVE (PG), 26 luglio 2015 - Secondo appuntamento, quest'anno, per gli Incontri in Terra di Siena, e ancora, al centro, la fusione indissolubile fra musica e poesia. Ancora un'unità che si dispiega attraverso la molteplicità: non più quella della polifonia madrigalistica [leggi la recensione], ma quella di un'unica voce. La voce sola, singolare e molteplice di Ian Bostridge, interprete della Winterreise di Schubert con il pianista Julius Drake.
Il nostro viaggio estivo – ma miracolosamente graziato dagli eccessi di calura di queste ultime settimane – ci porta per quest'occasione oltre i confini amministrativi delle Terre di Siena, in provincia di Perugia. In pochi chilometri già il paesaggio e l'urbanistica cambiano un po', ma sempre in incantevoli gradazioni di continuità, fino alla rocca di Città della Pieve, nella quale si può ammirare, quasi per caso, l'Adorazione dei Magi del Perugino, illustrata dal disponibile ed estroverso custode dell'Oratorio senza che un centesimo venga chiesto ai visitatori.
Proseguendo per il centro, fra i palazzi storici, civili e religiosi, pubblici e privati, si scopre il Teatro degli Avvaloranti, un'altra di quelle miniature di sala all'italiana che fioriscono nei nostri borghi, suggestivi quanto difficili da valorizzare stabilmente con un repertorio commisurato alle dimensioni.
Di certo il Lied può essere di casa in uno scrigno così intimo, cameristico per quanto provvisto di palchi, foyer, galleria al pari dei fratelli maggiori. Se, poi, sul palco nudo, appare Ian Bostridge abbiamo la certezza di trovarci proprio a casa del Lied, seppur un'insospettabile dimora di villeggiatura in seno alle terre ubertose del melodramma, lontana dai salotti natii ma perfettamente fedele allo spirito originario.
Solo e solitario, singolare e molteplice, il Wenderer viaggia attraverso la propria psiche, senz'altra compagnia di se stesso, in un equilibrio fragile e precario, eternamente mutevole, solo occasionalmente e illusoriamente stabile. Danza e si dibatte in una spirale implacabile che asseconda e contrasta, sempre senza speranza. E la psiche s'infrange in mille sottilissime schegge, che sono poi le mille voci racchiuse nell'unica voce di Bostridge. Le schegge hanno i loro spigoli, posso ferire, ma anche catturare la luce con effetti insospettati e fascinatori, purché non si cerchi, invano, il canto classicamente levigato di un antico poeta. L'animo poetico di Bostridge mostra le sue ferite aperte, pulsanti, sanguinanti, mostra le distorsioni e le lacerazioni della modernità, anela spasmodicamente a quell'appagante e inafferrabile bellezza che, appena colta, si sfalda e scivola fra le dita come sabbia. La voce si fa sottile come un filo di seta, si scalda in toni bruniti, è ora fissa, languida o tagliente, ora ruvida, aspra, brusca, androgina e virile, scioglie parole liquide e dolorose, delibate, scandite, schioccate, scoccate, infrante e fuse con disperazione, spossatezza, distacco, sorrisi amari, dissimulazione e piena, tragica, coscienza esistenziale. Non v'è nota che non sia pensata, scandagliata, non v'è fonema che non sia vissuto, masticato, metabolizzato. Al di là d'ogni possibile misura e composizione, ma con tale consapevolezza artistica e intellettuale da reggere alla perfezione una costruzione tanto pericolosa. Sulle spalle di un altro, facilmente, una lettura così estrema, minuziosa, molteplice della Winterreise avrebbe potuto rovinare; sulle spalle di questo dinoccolato inglese trovano un prodigioso, funambolico equilibrio. Lo stesso del gesto inquieto, mobilissimo, sanguigno e spettrale con cui Bostridge dà corpo scenico al suo canto, sviluppando un rapporto anche fisico, quasi compulsivo, di certo perfettamente calibrato nel gioco di ansie e tensioni, con la concreta staticità del pianoforte di Julius Drake, scoglio lucido e nero, enigmatico monolite, meta, appiglio, incognita. Soprattutto, né eco né riverbero nella mutevole molteplicità del canto, delle mille voci contenute in una sola voce e dei mille frammenti in cui si perde una sola psiche. Il tocco di Drake è, viceversa, un formidabile contraltare dialettico di solida oggettività, un'alienazione talmente estrema da creare una foresta di simboli autonomi, totemici, estranei fra i quali il Wenderer si aggira, con i quali si confronta. I fantasmi più profondi del suo animo, però, si sono oggettivati in una Natura indifferente come quella che dialoga con l'Islandese leopardiano, in figure autonome e insensibili, spettri inquietanti e imperturbabili. Per quanto saldi, e forse proprio perché così saldi, non c'è salvezza in loro: la meta del Wenderer non potrà che essere opposta, nella dissoluzione di uno spirito lacerato senza speranza. Oggettivo e soggettivo, unico e molteplice si contrappongono e si rincorrono fra piano e voce, senza che si approdi a una semplificazione manichea, sempre stimolando la tensione del monologo interiore.
Lo Schubert di Bostridge, d'altra parte, anela a un Sublime che non è quello della nobile semplicità e della quieta grandezza winkelmanniane, ma quello teorizzato dall'Anonimo autore del trattato ellenistico, che non ignora le regole, ma le supera con la libertà del genio, dell'intellettuale, in questo caso, tanto dotto e acuto da poter essere ardito e spregiudicato.
Ricomposta la molteplicità dell'inverno dell'anima, ci accoglie per le vie di Città della Pieve e nelle campagne circostanti la dolcezza notturna dell'estate, ma ci rimane, in fondo, un sottile, indecifrabile, turbamento.
foto ©Paul Flanagan