di Pietro Gandetto
In una Milano deserta, avvolta nella surreale quiete agostana, il Teatro alla Scala ospita una serie di concerti del Progetto El Sistema de Orquestas y Coros de Venezuela, inaugurando il Progetto il 12 agosto presso la Sala Verdi del Conservatorio di Milano, con la performance del coro Manos Blancas, composto da ragazzi sordomuti e ipovedenti.
MILANO, 12 agsoto 2015 - Chi l’ha detto che per cantare bisogna sentire con le orecchie, vedere con gli occhi e parlare con la bocca? Davanti al coro venezuelano dei Manos Blancas queste consolidate certezze si sgretolano, perché i ragazzi che lo compongono, che qualcuno definirebbe “meno fortunati”, cantano non solo con la voce, ma anche e soprattutto, con le mani. E’ vero, v’è, fra essi, chi non sente e chi non vede, ma tutti riescono a fare musica e ad essere intrerpreti davvero eccezionali.
Un primo coro, che potremmo definire “vocale” - formato da ragazzi affetti da handicap visivi e cognitivi, disturbi linguistici, fisici ed emozionali - intona le melodie. Un altro coro, quello “gestuale” - composto dai ragazzi sordomuti - traccia con le mani, avvolte in guanti bianchi, eleganti coreografie, che riprendono le stesse melodie con i gesti del linguaggio dei segni. I ragazzi sordomuti muovono le loro mani bianche al ritmo di musica, con un gesto scenico eloquente e sempre meticoloso nella trasposizione gestuale della linea melodica. Le mani bianche, evocano il movimento delle ali di un gabbiano, metafora delle anime libere dalle catene dell’handicap.
La storia del coro Manos Blancas inizia nel 1999 in Venezuela quando Naybeth Garcia e Johnny Gómez, docenti nella scuola di musica del Maestro José Antonio Abreu, iniziarono ad applicare a bambini con gravi deficit cognitivi e sensoriali il metodo didattico “El Sistema”, ideato nel 1975 dallo stesso José Abreu, che ha quale mission la diffusione dell’educazione musicale ai bambini e ragazzi con condizioni economiche meno abbienti.
Non è facile spiegare con le parole il senso di libertà e di gioia che questi ragazzi trasmettevano. Una gioia che induceva gli spettatori, ammutoliti, a guardare uno ad uno i loro volti, scavati dalla tristezza e dalla gioia e impegnati nell’interpretazione gestuale dei brani e nel racconto - senza parole - delle loro storie. Dalla platea non si aveva la percezione che questi ragazzi non sentissero la musica o non vedessero il loro Maestro, ma che sentissero la musica e e vedessero le persone “a modo loro”, secondo un canale comunicativo ancora più intimo e privilegiato, perché avulso dalle modalità espressive canoniche. Uno scambio e un arricchimento continuo tra questi ragazzi e il pubblico, secondo un concetto di reciprocità diretto, poiché privo di limiti e barriere. Non a caso, quando ne parlava, il grande Claudio Abbado non poteva trattenere l’emozione che ancora oggi si prova assistendo a concerti come quello di ieri.
Il fil rouge della serata è stata una serie di pezzi della tradizione venezuelana, oltre ad alcuni brani classici come il Va Pensiero del Nabucco di Giuseppe Verdi, eseguiti con calore e perizia stilistica e vocale. Tra i pezzi più coinvolgenti l’Ave Maria di John Rutter e l’O Magnum Mysterium di Morten Lauridsen, in cui il coro ha regalato al pubblico un pathos e un calore davvero eccezionali. Sorprendenti anche il Tamugangueando di Edgar Mejias, un susseguirsi di sincopi, ritmi zoppi e controtempi eseguiti alla perfezione. Altrettanto valida la performance del quintetto vocale Lara Somos, composto da alcuni dei ragazzi del coro, che ha inframmezzato l’esecuzione dell’ensemble con pezzi tradizionali come Guantanamera di José Fernando Diaz e The Seal Lullaby del compositore contemporaneo Eric Whitacre.
Tra il pubblico, l’emozione e l’euforia erano palpabili e, a fine serata, interminabili e davvero sentiti gli applausi tributati al coro e agli abilissimi direttori Luis Agel Chichilla e Maria Velàsquez.
Una serata intesa, gronda di significati, quale quello della musica come linguaggio universale, capace di veicolare i valori della solidarietà e dell’armonia e di oltrepassare i limiti della presunta diversità. Un’ulteriore prova del fatto che la diversità esiste solo negli occhi di chi guarda.