di Roberta Pedrotti
Chiara Amarù, chiamata ad aprire il ciclo dei Concerti di Belcanto del Rossini Opera Festival offre un saggio della sua maturità artistica e dell'ottima preparazione tecnica e musicale. Lasciandoci però il sogno di ascoltarla in ruoli Colbran più che in quelli di schietto contralto en travesti.
PESARO 16 agosto 2015 - Si comincia con Massenet, tre arie da camera di colore spagnolo (Nuit d'Espagne, Chanson andalouse, Sevillana) che in un recital potrebbero far la figura dei riempitivi, dei cosiddetti scaldavoce. Ma la voce di Chiara Amarù non sembra aver alcun bisogno di scaldarsi, di adagiarsi su pagine comode per concentrare impegno e attenzione su alcuni pezzi forti: fin da subito è chiaro che ci troviamo di fronte a una fuoriclasse, un'artista completa, che non è solo la Rosina, l'Angelina, la Sara di Nottingham apprezzata in più occasioni, ma anche e soprattutto l'interprete in grado di uscire a testa alta dalla prova insidiosa del recital solistico.
Dal colore locale di un maestro d'esotismo, mascheramenti settecenteschi, erotismi orientali e antichi quale fu l'autore del Werther, a un altro Goethe rivisitato da un altro francese di altissime ambizioni nelle scelte letterarie, ma di respiro musicale meno rifinito, il passo si rivela breve. D'altra parte, se Mignon è opera che, francamente, può ben rimanere nel dimenticatoio in cui, dopo una certa popolarità passata, il tempo l'ha confinata, almeno “Connais-tu le pays” trova la sua bella ragion d'essere quando è cantata con questa sensibilità poetica. Sarà l'origine palermitana a ispirare nella Amarù la Sensucht della Sicilia dell'adolescente goethiana messa in musica da Thomas, ma il testo viene detto con una semplicità così delicata e toccante, con una verità così profonda da incantare. Il contrasto, poi, con lo spumeggiante paggio Urbain degli Huguenots e il suo “Non, non, non, vous n'avez j'amais” è particolarmente significativo e mostra come la stessa freschezza giovanile, la stessa cura per la parola possa declinarsi con eguale fragranza in una morbida nostalgia e in una scanzonata ironia.
Dalla Francia all'Italia, non poteva mancare, come in un crescendo, l'omaggio a Rossini. Innanzitutto L'italiana in Algeri con la cavatina di Isabella. Se finora avevamo ascoltato tessiture che esaltavano lo smalto madreperlaceo della voce della Amarù, la sua suadente luminosità, le delicate bruniture e la femminilità, ora la troviamo alle prese con una scrittura contraltile che non sarebbe, in linea teorica, la più congeniale ai suoi mezzi. Però, senza istituire paragoni fuori luogo (ogni artista deve far storia a sé ma ogni artista fa parte di una storia dalla quale non può isolarsi), anche Teresa Berganza non è mai stata un autentico contralto, distinguendosi ugualmente come una delle più grandi interpreti di Isabella di cui vi sia traccia e memoria. Lo è stata in virtù della naturalezza dell'emissione, dell'eleganza, dello spirito, della musicalità, dell'onestà nel non forzare mai la voce, ma di piegarla all'arte senza tradirla. In questo la piccante, giocosa italiana di Chiara Amarù, disarmante nel suo malizioso sorriso canoro, ne può ben seguire le orme, candidandosi a erede della grande spagnola. L'erotismo più che alluso del bolero L'invito (“vieni, fammi spirar” sono parole decisamente esplicite, soprattutto nell'uso ottocentesco) è colto con eleganza e non eluso, rivelando non solo gusto e arguzia, ma anche un trasporto più carnoso e concreto.
Il secondo brano operistico rossiniano ci riporta in territorio contraltile, ma in contesto – e quindi con conclusioni – affatto differente. Malcolm nella Donna del lago è un giovane guerriero e amante e se la freschezza adolescenziale si confà al suo canto come morbide malinconie e teneri abbandoni, la resa della tessitura grave non può avere la stessa souplesse di quella di Isabella. La sortita “Mura felici” è cantata assai bene, come ci si aspetta da un'artista del livello della Amarù, sempre a fuoco nell'emissione, nel fraseggio nella musicalità. Tuttavia proprio perché si tratta di una giovane artista di questo calibro e di queste potenzialità, non possiamo non rilevare dettagli altrimenti marginali, come un registro grave che suona leggermente meno franco e autentico, una coloratura precisa ma meno sgranata, un acuto sicuro ma meno sfavillante. Sfumature, dettagli che non ci impedirebbero di applaudire con gioia ed entusiasmo un suo Malcolm in teatro (di fatto, anche a Pesaro due anni fa, seppur in forma di concerto), ma che sparirebbero se invece delle lagrime versate dal giovane guerriero scozzese cantasse i mattutini albori sul picciol legno di Elena, la protagonista. Perché tutto nel canto della Amarù ce la fa sognare come un'Elena ideale, coerentemente con una copiosa tradizione mezzosopranile che ha visto sfilare nei panni della Donna del lago la Von Stade, la Ganassi, la Polverelli, la Didonato, senza citare il rondò inciso da Horne e Valentini Terrani. Che Chiara Amarù sia un mezzosoprano è lampante, ma soprattutto è lampante che sia un'artista di valore e di ottima tecnica, dalla quale non chiederemmo (soprattutto ora) Ermione o Semiramide, ma dalla quale è legittimo auspicare, oltre a Elena, almeno una Canzone del salice, un “Giusto ciel, in tal periglio”. Chissà...
Frattanto, dopo Malcolm, si chiude il cerchio tornando alla musica da camera e alle atmosfere iberiche con la Canzonetta spagnola di Rossini.
Il concerto ha i minuti contati, perché chi ha il biglietto per La gazza ladra della stessa sera deve correre a prendere la navetta per l'Adriatic Arena, ma gli applausi e le richieste sono tali che due bis risultano d'obbligo. Carmen Santoro torna a sedersi al piano e Chiara Amarù non annuncia il primo fuori programma, "che riconoscerete subito". Il rondò di Cenerentola si conferma infallibile cavallo di battaglia di dolcissimo, incantato candore che sboccia naturalmente in una coloratura fluida e scintillante. Puro, contagioso, divertimento nella danza cantata del Canto negro di Xavier Montsalvatge, autore catalano che si riallaccia idealmente al fil rouge ispanico, gettando però uno sguardo al crocevia caraibico cui è ispirato il ciclo delle Cinco canciones negras. La poesia preziosa, sinuosa e nostalgica che aveva aperto il concerto ha saputo trasformarsi in malizia e ironia, in seduzione e languore amoroso, in spumeggiante gioia del canto per il canto; il colore ha saputo farsi puro ritmo, il fraseggio si è plasmato sulla parola sì da far pensare a un'arguta poetessa musicista, più che semplicemente a una, pur eccellente, vocalista dal timbro di madreperla.