di Roberta Pedrotti
Isabelle Faust chiude da solista, con il repertorio a cavallo fra XVII e XVIII secolo, il trittico dedicatole dal Bologna Festival.
Leggi le recensioni degli altri due concerti:
I tre volti d'Isabelle Faust: Illuminismo, 14/09/2015
I tre volti d'Isabelle Faust: Metamorfosi, 15/09/2015
BOLOGNA, 20 settembre 2015 - Isabelle Faust chiude il breve ciclo a lei dedicato dal Bologna Festival – e dà il via in grande stile al nuovo anno musicale felsineo – tornando alle origini della letteratura violinistica, a cavallo fra XVII e XVIII secolo, in un'atmosfera di preferenza transalpina che abbraccia scuola tedesca, francese e, solo traverso, italiana, essendosi il tedesco Johann Georg Pisendel (1687-1755) perfezionato anche in ambiente vivaldiano dopo gli studi iniziali con Pistocchi e Torelli, e il francese Louis-Gabriel Guillemain (1705-1770) formato a Torino con Somis, a sua volta allievo di Corelli.
È l'epoca in cui il violino afferma la sua maturità e il suo ruolo anche solistico dopo una fase non meno feconda, ma ancora pionieristica fra XVI e XVII secolo: si consolida al vertice dopo un'irresistibile ascesa. Può permettersi di stare anche solo sulla vetta, di giocare fra danze e galanterie, di concentrarsi in meditazioni religiose, di parlare il linguaggio più dotto, severo, astratto. Può raccogliere la sfida di trasformarsi in strumento polifonico, di emulare l'onnipotenza dell'organo, non tanto come microcosmo figura del creato, ma come sintesi di un pensiero musicale complesso. Esplorare e affermare, dunque, la sua stessa essenza, ricercare l'essenza stessa della partitura, la molteplicità del suono nella singolarità dello strumento e dell'interprete.
Isabelle Faust, dopo essersi affiancata al fortepiano di Alexander Melnikov e alla voce di Amu Komsi, si presenta sola, ma non lascia sola la sua Bella addormentata Stradivari, alternandola con un altro violino alla continua, fortunata ricerca, del suono giusto per ogni brano.
Si passa dalla Partita V in sol minore di Vilsmayr (1663-1722), e il titolo della raccolta Artificiosus Concentus pro Camera riassume tutta l'ambizione del pezzo, al citato Guillemain con sette dei brevi e leggiadri Amusements pour le violon seul op. 18. Chiude la prima parte il maestro di Vilsmayer e capostipite della scuola austro-tedesca, il boemo Heinrich Ignaz Franz von Biber (1644-1704), con un impegno di tutt'altro genere, il programma devoto e ben definito delle Sonate del mistero del Rosario, da cui ascoltiamo la Passacaglia in sol minore per violino solo C. 105, d'alta dottrina e intenso raccoglimento. E qui, soprattutto, dopo il saggio d'eleganza e acume dei due pezzi precedenti, la Faust impressiona per la capacità di far vibrare drammaticamente, con un contegno ispiratissimo, il virtuosismo dell'elaborazione d'un motto essenziale di sole quattro note e delle sonorità inconsuete – almeno per ascoltatori assuefatti solo alla tonalità classica – della cosiddetta “scordatura”.
Pisendel apre la seconda parte con la Sonata in la minore, ma è la chiusura con la Ciaccona in re minore dalla seconda Partita per violino BWV 1004 di Bach a lasciare senza fiato e a raccogliere in sé l'essenza ultima di questo concerto, forse dell'intero ciclo, che dal Classicismo al Novecento è tornato alla sfida capitale originaria oltre i limiti apparenti dello strumento e dell'essere umano. Un sofisticatissimo meccanismo di retorica contrappuntistica da affrontare in solitaria, con il controllo d'artista che imponga all'ingranaggio non solo la precisione impeccabile, ma anche l'eleganza poetica. La matematica deve farsi arte, esatta e ineffabile. La vertigine del virtuosismo si inverte dalle ampiezze ottocentesche a una lente focalizzata sull'infinitamente piccolo, su un dettaglio sempre più minuto: guardando la struttura atomica rivediamo le stelle. E l'incanto di un cielo notturno, lo splendore degli astri rimane intatto, nel chiarore e nel calore di un suono sempre perfettamente controllato, levigato, legato, delineato con mirabile nitore.
All'entusiasmo della sala rispondono dei bis, il secondo dei quali dedicato a chi “ha goduto di Kurtàg”. Il legame fra le origini e i giorni nostri è, del resto, lampante all'ascolto, e nell'elaborazione del pensiero, e nella plasticità espressiva, e nella libertà della ricerca sonora. Così si chiude il cerchio dei tre volti di Isabelle Faust, nella biblioteca di San Domenico, forma razionale e dedalo ideale.