di Pietro Gandetto
L’eccellenza verdiana del Maestro Zubin Mehta con la Messa da Requiem dell’orchestra e del coro del Teatro alla Scala e con Maria Agresta, Anita Rachvelishvili, Giorgio Berrugi e Carlo Colombara. Una fedele trasposizione del disagio dell’uomo dinnanzi al mistero della morte, in bilico tra l’abbandono alla misericordia divina e la disincantata consapevolezza della dannazione eterna.
Milano, 30 settembre 2015. “Gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante”. Così Alessandro Manzoni descriveva nei Promessi sposi la madre di Cecilia, la “morticina” uccisa dalla peste in tenera età. E così apparivano, umidi dalla commozione, gli occhi di molti dei presenti alla Messa da Requiem diretta dal Maestro Zubin Mehta nella Chiesa di San Marco, ove fu eseguita per la prima volta il 22 maggio 1874 in onore, appunto, di Alessandro Manzoni.
Alla conferenza stampa dei giorni scorsi, il Maestro Mehta ricordava con un velo di malinconia il suo primo Requiem con il fraterno amico "Claudio", e confessava la sua particolare affezione per questa partitura così celestiale e al contempo apocalittica. Un’opera che in nulla si discosta dalle composizioni operistiche di Verdi, se non per una sacralità più mistica e tormentata rispetto a quella tipica del melodramma verdiano. A chi obiettava che Verdi fosse ateo, il Maestro suggeriva, con la consueta eleganza, che probabilmente anche Mozart lo era, lasciando intendere che in fondo poco importa quanto “teatro” e quanta “chiesa” vi sia in questo Requiem, visto che il concetto di “sacro” qui prescinde da un’effettiva connotazione religiosa. Così interpretato il messaggio dell’autore, la direzione di Mehta ha fatto centro anche questa volta, offrendo una lettura tradizionale, ma per nulla routinaria del capolavoro verdiano.
Le linee guida dello stile mehtiano ci sono e si scorgono in una costante tensione ed esasperazione delle dinamiche, e in una lucidità ritmica senza eguali, capaci di evocare un’idea metafisica, ma profondamente tormentata della morte. Una fedele istantanea del senso di disagio dell’uomo dinnanzi al mistero della morte, in una costante dicotomia tra l’appagante abbandono alla misericordia divina e la disincantata disperazione per la dannazione eterna.
La direzione è imponente, ieratica, fluida e attenta alle esigenze dei cantanti, plasticamente fusi con il direttore in una perfetta sintonia d’intenti. Il gesto è composto e perentorio e gli attacchi arrivano un attimo prima del battere, com’è prerogativa dei “big”. La tavolozza cromatica e ritmica che Mehta ricava dalle single compagini è eccezionale e ciò che se ne trae è un fraseggio che realmente “sa” di Verdi. Partendo dal Dies Irae, il primo pezzo heavy metal della storia, apprezzatissima la precisiona ritmica e la granitica declinazione delle fughe. Ma anche più oltre l’esasperazione dinamica è ben riuscita con pianissimi elegiaci e volumi più imponenti. Di pregio il tappeto orchestrale del Lacrymosa in un incedere incalzante delle robanti percussioni che sembravano traghettare le anime nell’aldilà.
Venendo ai solisti, apprezzamenti incondizionati per il cast femminile. Non possiamo che rinnovare le parole di elogio riservate in altre occasioni a Maria Agresta. Oltre alla consueta eleganza nel fraseggio e all’attenzione alla parola (qui ancora più importante), apprezzabile la capacità del soprano di indagare il proprio strumento vocale piegandolo alle diverse esigenze drammatiche e liriche della partitura. Una voce ora chiara e celestiale e ora più scura e drammatica, in un continuo susseguirsi di smorzati, filati e acuti penentranti. Puntuale ed etereo il Salva me del Rex Tremendae e il duetto Recordare con il mezzosoprano. Meticolosa la precisione stilistica ed esecutiva del Libera Me Domine.
Di pregio la performance di Anita Rachvelishvili. La qualità timbrica e la ricchezza di armonici sono, come di consueto, impareggiabili. Il colore brunito e scuro, la morbidezza nei passaggi di registro e la sontuosità degli acuti la rendono interprete verdiana ideale non solo nel repertorio operistico (cfr. la sua regale Amneris), ma anche in quello sacro. Notevole la capacità di evocare icasticamente l’atmosfera di angoscia e trascendenza voluta da Verdi. Intensa nel Liber Scripus, in un continuo alternarsi tra dirompenti declamazioni drammatiche e paradisiache smorzature; assai suggestivo anche il Lux Eterna, dove la linea del canto evocava una dimensione quasi divina.
Meno esaltanti le performance delle voci maschili. Giorgio Berrugi, pur dotato di un buon materiale, non sembra nelle condizioni di governare adeguatamente la partitura. La voce è a tratti nasaleggiante e i colori abbastanza statici. Le titubanze del registro acuto si sono palesate soprattutto nell’Ingemisco dove anche l’interpretazione è apparsa avulsa dalla solennità che ha contraddistinto l'impianto della direzione di Mehta.
Prova solistica un po’ sottotono anche per Carlo Colombara, che tuttavia ha dalla sua un’esperienza e uno strumento tali da consentirgli di poter “vivere di rendita” anche in serate come questa. La voce è apparsa a tratti stanca e priva della consueta rotondità che abbiamo apprezzato nella recente Bohème scaligera. Ciò nonostante, il timbro profondo e la corretta accentuazione hanno consentito un'esecuzione gradevole e stilisticamente adeguata.
Il Coro, guidato dal Maestro Bruno Casoni, ha sfoggiato una buona compatezza e qualità di suono. A ecccezione di qualche piccolo scollamento con l’orchestra nelle prime misure del Sanctus, sempre puntuale negli attacchi e incisivo sia nei momenti di maggior pathos che in quelli più elegiaci. Tra tutte, spicca la compagine tenorile, senza nulla togliere a tutte le altre sezioni, parimenti apprezzabili.
La serata si è chiusa con circa quindici minuti di applausi e calorosi apprezzamenti per il Maestro Mehta e per tutto l'ensemble.