di Roberta Pedrotti
Per il ciclo Grandi interpreti del Bologna Festival, Antonio Pappano e Alessandro Carbonare offrono un eccezionale appuntamento cameristico che affianca un programma intimo e intelligente dedicato a Schumann e Brahms e due bis "un po' diversi".
BOLOGNA 7 ottobre 2015 - Antonio Pappano non sembra potersi stancare, sembra composto da un'inesauribile energia musicale. Nemmeno ventiquattro ore dopo aver diretto la Nona di Beethoven a Roma [leggi la recensione], eccolo a Bologna per tutt'altro programma, tutt'altro tipo di impegno, diverso ma non inferiore.
Posa la bacchetta, siede al pianoforte e torna in un certo senso alle origini, a quando, ragazzo, accompagnava le lezioni di canto tenute dal padre. Questa volta non accompagna, però, una voce umana direttamente articolata in parole, bensì la voce mediata dallo strumento nel melos senza parole del clarinetto. E a dar vita allo strumento c'è Alessandro Carbonare, per il quale la metafora del soffio vitale insufflato nella materia inanimata sembra non solo appropriata, inevitabile.
Primo clarinetto dell'orchestra di Santa Cecilia - e di fronte a tanto sfarzo si capisce perché sia indiscutibilmente la prima orchestra italiana, l'unica di grande respiro internazionale - Carbonare può vantare un curriculum impressionante, che, tuttavia, rappresenta solo l'eco e l'ombra di ciò che realmente ascoltiamo. Il suo clarinetto canta, canta realmente, con una verità, una sensibilità e una dolcezza suadenti come non mai. Questa delicatissima, ma non flebile, anzi incisiva, espressione poetica si dipana in un fraseggio morbido, ipnotico, rifinitissimo, di luminoso nitore intellettuale. E con questa lucidità unisce e controlla una potenzialità anche timbrica sorprendente, tale che si direbbe di ascoltare non un solo clarinetto, ma un consort di tagli diversi, fors'anche di strumenti diversi, ma che condividono una sola mente, una sola anima, una sola idea musicale.
La sintonia con Pappano è totale, l'espressione comune, il senso ammaliante di una intimità cameristica, di un suono caldo, cremoso, sinuoso che nasconde ma non elude gli aspetti perturbanti del Romanticismo, dell'inquietudine esistenziale di Schumann e della continua ricerca dell'amico Brahms. Alternano e specchiano fra loro di Robert Schumann Fantasiestücke op.73 e le Drei Romanzen op.94, di Johannes Brahms Sonata in mi bemolle maggiore op.120 n.2 e la Sonata in fa minore op.120 n.1. I brani del marito di Clara risalgono al 1849, anno creativamente felice, solo un lustro prima del tragico, ma non letale, salto nel Reno, epilogo del tormento interiore che lo porterà alla morte nel '56; sono tutti destinati all'esecuzione domestica, nel caso delle Romanze dedicati espressamente alla moglie, immagine di un'intimità gelosamente custodita, di un riserbo sincero, di una dolcezza sentita quanto meditata, in un equilibrio delicatissimo fra la felicità prossima e il turbamento sottile e ineluttabile. L'opera 120 dell'amico fraterno di Clara anche dopo la morte di Robert è invece concepita nel 1894, due anni prima della scomparsa della donna, tre prima di quella dell'Autore. Vi spira una composta nostalgia, come un'eco del sentimento schumanniano finalmente pervenuta a una serenità, a una melanconica e consapevole pace interiore, come un sorriso agrodolce e indulgente.
Pappano e Carbonare dipanano questo sentire, come in un affettuoso dialogo a distanza fra i due amici attorno al polo invisibile di un eterno femminino incarnato nell'arte e nella saggezza di Clara. Giocando sulle mezzetinte, su una splendida condivisione, un perfetto affiatamento musicale, il tocco morbido e intelligente di Antonio e il soffio duttile e lucido di Alessandro danno vita a un programma intimo e sofisticato, ammaliante e sottilmente stimolante.
“Un po' diverso” viene annunciato il primo bis, “ancor più diverso” il secondo, da vere creature musicali che una sera si possono trovare sul podio e in orchestra con Beethoven, la sera dopo fianco a fianco solisti in duo a rievocare l'interiorità cameristica di Schumann e Brahms, infine a suonare un po' di jazz e un po' di klezmer. Pappano non si scompone e sempre con la stessa disinvoltura scioglie accordi e ammiccanti passaggi swing dialogando con il virtuosismo idiomatico di Carbonare – e sembra di immaginarli a improvvisare divertiti simili duetti fra una prova e l'altra a Santa Cecilia. Passano poi al trionfo del clarinetto - sempre ben sostenuto dal piano - nella tradizione ebraica dell'Est Europa, con un lirismo che porta alle estreme conseguenze le possibilità tecniche ed espressive dello strumento, in un caleidoscopio timbrico che pare infinito, come l'estensione richiesta e la duttilità di un ritmo su cui s'informa un discorso musicale di grandissima profondità.
Pubblico in delirio, inevitabilmente. Dietro i nomi, la fama, i curricula, c'è la sostanza di autentiche creature musicali, nel senso più alto e bello del termine, c'è un'inesauribile gioia del fare e condividere la musica, di darle vita senza fermarsi in superficie, vivendola, studiandola, amandola. E si esce dall'auditorium sentendoci tutti un po' più ricchi.