di Roberta Pedrotti
L'orchestra di Santa Cecilia, causa materiale, con la direzione di Antonio Pappano, causa efficiente, realizza la forma di sinfonie e preludi verdiani, accostati alla Settima di Beethoven, per un concerto che, nell'ambito del festival parmigiano, si avvicina al fine straordinario dell'utopia, almeno strumentale, del migliore dei Verdi possibili.
PARMA, 18 ottobre 2015 - Il migliore dei Verdi possibili, un'utopia, certo, per di più sottoposta alla variabile sfuggente dell'interpretazione e del gusto. Un'utopia e una chimera che, però, un Festival che si rispetti deve pervicacemente perseguire. Da questo punto di vista, il cartellone verdiano del Regio di Parma ha colpito nel segno invitando Antonio Pappano e l'Orchestra di Santa Cecilia, la scelta perfetta avvicinarsi all'ideale.
La materia è quella di un complesso di valore assoluto, abbacinante nel suo splendore, nella sua sfilata di prime parti che fanno di ogni intervento solistico un concerto da delibare avidamente, e pur tuttavia così coeso, coerente, organico davvero come dev'essere un'orchestra. Una e molteplice, con una personalità inconfondibile che unisce una qualità oggettiva ai massimi livelli mondiali (quanti complessi possono vantare nomi del calibro di Geminiani, Carbonare, Allegrini, Lucchi nelle loro fila? E nel citarne quattro soli non si vuol far torto a tutti gli altri) un tratto comune innato. Fra imponenti corazzate russe, splendori bronzei, auri, lignei, cristalli e filigrane europee e statunitensi, Santa Cecilia sfoggia una sonorità peculiare, dallo smalto caldo e luminoso, elegantemente mediterraneo. Un senso del canto e dell'articolazione musicale che possiamo ben dire italiano senza fraintendere in una vuota retorica la nobiltà del concetto.
Tale materia, per manifestarsi, deve assumere una forma, la quale a sua volta si rivela nel suo valore attraverso la materia. Fatto d'importanza non banale, ché la Settima di Beethoven proposta nella seconda parte del concerto è universalmente, anche nella sua forma silente sulla carta, come uno dei vertici assodati del pensiero musicale, mentre – salvo eccellentissime eccezioni – non è frequente veder eseguiti e riconosciuti preludi e sinfonie di Verdi a tale stato d'arte.
Perché la potenza di forma e materia si traduca in atto è necessaria una forza motrice, una causa efficiente, e questa è la bacchetta invisibile di Pappano, che dirige solo con le mani, anche in modo tanto netto che talora sembra di vedere una sottile linea bianca splendergli fra le dita. Plasma direttamente la materia secondo un disegno minuzioso, che non trascura nessun dettaglio del progetto verdiano, come s'intende nell'equilibrio ritmico, nei rubati e negli accenti della Luisa Miller, nelle arcate della Forza del destino, dolorose e taglienti al punto da apparire stridule come un grido disperato, come la ferocia dell'esistenza, nella cantabilità cremisi dei non meno foschi Masnadieri, nei contrasti dinamici e timbrici di Aida. Ma la realizzazione del segno, dell'idea formale coincide con un fine artistico, con una sintesi pervasa da una vibrazione febbrile d'inaudita potenza ipnotica, che passa attraverso la straordinarietà della materia e non si ferma a considerarla la meta ultima di un'esperienza che è una continua tensione verso l'utopia dell'essenza verdiana, del migliore dei Verdi possibili.
Il fine sarà allora il crescendo nervoso della Sinfonia di Luisa Miller, là dove l'elaborazione tematica di gusto transalpino s'innesca come il meccanismo delle trame e delle calunnie di Wurm e del Conte Walter, da un sussurro, quasi stentato, da una sottigliezza evanescente percorsa da scatti come piccole scosse elettriche, sempre più frequenti, soffocanti, fino ad averci completamente vinti e spossati.
Il fine sarà quella Forza del destino tutta contrasti, come il mare agitato innanzi alla titanica Natura matrigna presso il Capo di Buona Speranza, fra illusioni di dolcezza quasi cullanti, ma pronte a trasformarsi in pianto, a farsi impeto di volontà e deflagrare nella tempesta senza che mai il fluire delle onde perda la sua continuità, il moto perpetuo che la contraddistingue e che ne circoscrive l'unità nella molteplicità. E nella solennità di un Verdi che non viene mai meno all'impellenza drammatica come all'innata e imprescindibile nobiltà di spirito.
Il fine sarà poi intendere il Preludio dei Masnadieri come un breve concerto per violoncello e orchestra, senza tuttavia trasfigurarlo come forma autonoma e astratta di musica pura, ma lasciando trasparire, nella sua alta dignità concertistica la riflessione sintetica sul densissimo dramma che Maffei trasse da Schiller sentendosi in dovere di trasfondere nei versi tutti gli umori e i rovelli intellettuali del suo Romanticismo.
Il fine è la Sinfonia di Aida, pezzo dalla storia controversa che Verdi, per il debutto milanese, avrebbe scritto, provato, archiviato e rinnegato contrariamente a quanto fece per La forza del destino. Non a torto, perché se la ragion d'essere delle disavventure di Leonora, Don Alvaro e Don Carlo non è tanto nelle loro inverosimili peripezie, quanto nel senso d'ineluttabilità, nell'impossibilità perfino sadica e sardonica di una felicità in questo mondo; tinta, per dirla con Verdi, o atmosfera morale, per dirla con Rossini, che quasi richiede di essere esposta inizialmente in una sorta di poema sinfonico sulla forza del Destino. Per Aida non è la stessa cosa, la Sinfonia estesa suona come una suite dall'opera ma è davvero difficile immaginare quel crescendo finale a saldarsi poi, come avviene magistralmente con il Preludio, all'incipit della prima scena, in un autentico continuum teatrale. In concerto, però, con un'orchestra che nel sangue il canto e il teatro verdiano, nelle dita l'eccellenza della tecnica, sul podio un direttore musicale straordinario cui la lega un rapporto intimo e fecondo, questa piccola Aida solo strumentale trova una sorprendente ragion d'essere.
Il clarinetto di Carbonare canta divinamente i cromatismi di Aida, effonde lo struggimento di “Numi pietà” o di “Amore, amore, gaudio, tormento”, ma non è solo belcanto, non è solo affetto musicale, è dramma, è teatro per come quel suono galleggia e si confronta con il fremere della gelosia di Amneris che varia costantemente – ora si parcellizza si raccoglie in una massa minacciosa, ora segue il sogno della rivale aprendo perfino un sinuoso valzer – in archi tanto morbidi da apparire viscosi e insidiosi come una sabbia mobile, come l'affetto esibito dalla principessa nei confronti della schiava per carpirne i segreti. Il gioco dei timbri, lo spettro dinamico, la capacità superba di giostrare fra piani sonori, verità e ironia, fino al trionfo progressivo dell'incedere dell'empia razza sacerdotale trasformano la sventurata Sinfonia in una godibilissima figurazione dell'opera, anche con quel finale che, siamo certi, con altra materia e altra causa efficiente potrebbe giungere a esiti decisamente triviali.
Passare a Beethoven nella seconda parte non è solo un'inevitabile e gradita appendice al ciclo ora in atto al Parco della Musica di Roma, ma anche un rappresentare il quadro, attraverso due poli fondamentali, della civiltà strumentale ottocentesca europea. Stessa materia, stessa causa efficiente forma diversa e fine ultimo in cui trionfa lo splendore trionfante dell'orchestra, così felicemente e fiduciosamente plasmata dal suo maestro. La sua energia propulsiva inesauribile penetra in profondità il tessuto musicale e apre ancora una volta gli spazi di un calibratissimo arco dinamico, di una perentorietà e di una mobilità dell'accento all'interno di un legato che è pura apoteosi strumentale del cantar che nell'anima si sente. Più che l'analisi e il cesello delle cellule tematiche – siano melodiche, armoniche o timbriche – che permeano l'architettura beethoveniana, Pappano ne esalta l'organicità e la spazialità con un dinamismo che non conosce cali d'interesse e di tensione, anche quando s' addolcisce in barlumi d'elegia. Questo Beethoven è, ne più né meno, il frutto succoso di una vera collaborazione fra orchestra e direttore musicale.
La sinfonia beethoveniana è un tutto in sé compiuto, l'ouverture operistica la parte di un tutto, che anche quando viene eseguita separatamente avrà sempre un referente nascosto che la completa, Pappano e la sua orchestra sanno in entrambi i casi coniugare l'unico e il molteplice, il sistema chiuso e quello aperto, sì che la sensazione, inebriante, è quella di essere in un futuro ricordati come oggi noi ricordiamo coloro i quali, qualche decennio fa, videro le performance grandi orchestre e grandi nomi oggi mitici. E, soprattutto e con buona pace della grandezza di Beethoven e dell'ottima esecuzione, abbiamo la sensazione di aver ascoltato quel che più si potrebbe avvicinare, in ambito strumentale, al migliore dei Verdi possibili. Un traguardo non da poco, ma, dopotutto, una delle ragioni, se non la principale, per cui un Festival Verdi dovrebbe esistere.
Fra applausi giustamente clamorosi, Pappano annuncia il bis, omaggio abituale al suo lato british: Nimrod dalle Enigma Variations di Elgar, altro saggio della qualità della materia ceciliana, perfetta con anima e per questo musicalmente duttilissima, in un repertorio universale e cosmopolita.
Al termine, Pappano firma autografi nel foyer come nell'uso, ancora raro da noi, dei grandi divi nei teatri internazionali. Ci sentiamo davvero in una capitale della musica, e che tutta questa meraviglia venga da istituzioni italiane ha il gusto agrodolce di una speranza che non vuole essere illusione.
foto Roberto Ricci