di Stefano Ceccarelli
Siamo oramai giunti nel mezzo del cammin del ciclo sinfonico beethoveniano. Questa volta Pappano propone la tradizionale accoppiata della Quarta e della Settima, introdotte in apertura dall’ouverture della Médée di Luigi Cherubini, che Beethoven ammirava sommamente. L’esecuzione è straordinaria: Pappano appare in forma smagliante e il pubblico applaude felice.
ROMA, 20 ottobre 2015 – La sala Santa Cecilia dell’Auditorium, gremitissima, accoglie l’ingresso trionfante dell’orchestra e del suo maestro stabile, Antonio Pappano. Siamo giunti a metà del ciclo sinfonico. La soirée musicale è aperta dall’ouverture della Médée di Luigi Cherubini. Stupisce – in un certo qual senso – rendersi conto di quanto Beethoven fosse, in fin dei conti, umano; fosse un uomo, con dei miti, degli idoli. E uno degli idoli di Beethoven fu proprio Cherubini: «la vera arte è immortale e il vero artista trova intima soddisfazione nelle vere e grandi geniali creazioni dell’ingegno. […] in poche parole io L’amo e La venero. […] Lei resterà sempre quello dei miei contemporanei che stimo di più» (Beethoven a Cherubini in una lettera del 1823). Parole di un ammiratore schietto, sincero, rivolte al sommo maestro della tragédie lyrique, che incantò la Parigi fin de sièclecon le sue opere, di cui Médée è la più celebre. La direzione del pezzo è francamente perfetta. L’attacco del tema in fa minore è asciutto, ben scandito, marziale e sacrale a un tempo, risoluto. La più dolce parte centrale è gentilmente risolta sulle compagini degli archi. Il tutto è amalgamato a perfezione; l’agogica è impreziosita da attenzioni e dilatazioni, che risolvono molte piccole sezioni volutamente pendenti. Da questo clima di dolce stordimento, Cherubini ci riconduce alla tragedia, terminando con energia il pezzo. Un fiume di applausi.
La Quarta sinfonia in si bemolle maggiore op. 60 è, per così dire, la Luisa Miller di Ludwig van Beethoven: si situa in una zona di confine di gusto per cui si può fondatamente affermare che compartecipi tanto degli elementi già sperimentati, che di anticipazioni atmosferiche che ritroveremo solo più in là, trascolorando sovente tra l’una e l’altra sfera. Pappano, apprestandosi a dirigere l’ “ellenica” (come ebbe genialmente a definirla Schumann), è infuso di greco enthousiasmos. Dirige l’Adagio che apre il primo movimento con paludosa movenza, valorizzando il vapore strumentale su cui scoppiettano le bolle di sapone dei pizzicati degli archi; nell’Allegro v’è un’esplosione di colori: Pappano esalta l’atmosfera agreste – foriera della Sesta – festosa e gaia, rispettando il dettato fin nei minimi particolari. L’interpretazione dell’Adagio (II)è tutta volta all’esaltazione dell’emozione opprimente di cui parlava Berlioz. Pappano gioca con i colori, con le combinazioni d’entrata di legni e con l’accompagnamento incalzante e sussultorio degli archi. Le volumetrie vengono da sole, con effetti di aumentando e smorzando. Azzeccatissime le parole di G. Pestelli sul secondo movimento: «questa meravigliosa “aria” per orchestra: l’incanto nativo e pacato della melodia, la quieta tessitura delle immagini sono come convalidati dall’inquietudine ritmica di un accompagnamento tanto sommesso quanto balzante e arguto; un contrasto […] fra superfici lisce e scabre». Niente di più lontano dallo Scherzo, potentemente frizzante, esaltato da una direzione decisa di Pappano. Ma lo sfrenamento dell’orchestra si ha nel Finale dove Pappano calca il ritmo cangiante e travolgente: talentuoso nel gestire le sovrapposizioni ritmiche e i giochi di scarti, imbriglia bene i frizzi schizofrenici degli archi nel regalarci una maestosa esecuzione.
Dopo l’intervallo è il momento della Settima sinfonia in la maggiore op. 92, un empireo di perfezione sonora, la cui direzione pone problemi insormontabili – non ultimo il fatto che è stata letta e riletta innumerevoli volte. Ma Pappano non è certo da meno di nessuno per perizia e ispirazione. Fin dal Poco sostenuto del primo movimento, il direttore accumula l’energia che sprizzerà come una rigogliosa polla nel Vivace. Pappano è schietto: non nasconde la vena “fanfaristica” di taluni passaggi, anzi esalta legni e ottoni facendoli risplendere in chiarezza. Del resto proprio la tessitura dei legni, con i loro guizzi e il loro dialogo a botta e risposta, è la chiave di volta del primo movimento: Pappano ha il pregio di leggere il tutto al microscopio, facendoci godere il momento dell’esplosione edonistica (ma di un edonismo caldamente casto) del tema principale, celeberrimo per la magnifica intuizione della nota ribattuta che carica di suspense l’ingresso del tema stesso. Proprio questi giochi di ritmo ben si attagliano all’entusiastico giudizio di Wagner, che usò per la partitura determinazioni come «bacchica onnipotenza», «umana danza celestiale» e «apoteosi della danza». L’Allegretto me lo sono sempre immaginato come una passeggiata invernale, lesta, spedita, incalzata dal rigido freddo, ma volenterosa di contemplazioni del paesaggio ghiacciato. La lettura di Pappano mi ha fatto tornare alla mente queste immagini: gli archi sferzanti sono il gelo incombente, ma la volontà di contemplazione dell’uomo è rappresentata dai toni vivaldianamente elegiaci (la «macerata elegia» di cui parla Pestelli). Florido e fluido lo Scherzo, puro istinto energetico: il Trio è magnifico per quel tremulo delicato degli archi, di cui Pappano intuisce perfettamente la spinta coreutica. E sommamente coreutico è il Finale: Pappano non si trattiene dal saltellare sul podio, accompagnando questo tripudio di movimento dal nobile sapore popolare. Un vorticoso uragano si dirige alla conclusione e noi percepiamo distintamente le atmosfere della Nona. Il pubblico non riesce a trattenersi da un fragoroso applauso, che corona l’ennesimo sforzo del maestro.