di Stefano Ceccarelli
L’Istituzione Universitaria dei Concerti (IUC) ospita il recital del talentuoso ucraino Alexander Romanovsky, una delle stelle nascenti del panorama pianistico internazionale. Il programma che porta è romanticamente “olistico”: «uno sguardo riassuntivo sulla musica pianistica del XIX secolo», anche se, naturalmente, «certamente non è un programma esaustivo» (M. Mariani). Due celeberrime sonate di Beethoven (“Chiaro di luna” e la n. 30 op. 109), una silloge degli Studi d’esecuzione trascendentale di Liszt e le Variazioni su un tema di Paganini di Brahms. Romanovsky riceve una calorosa accoglienza, degno tributo al suo fresco talento.
ROMA, 24 ottobre 2015 – La IUC ospita un astro nascente del pianismo internazionale, il giovanissimo ucraino Alexander Romanovsky (classe 1984). Altissimo, dall’aspetto di un conte di Valacchia, Romanovsky incede verso il piano e attacca la Sonata in mi maggiore n. 30 op. 109 di Ludwig van Beethoven. Fin dal Vivace ma non troppo. Adagio espressivo palesa le sue buone doti: nobile tocco, attenzione al suono, allo squillo, alle volumetrie. Legge lo spartito con un’esecuzione intimistica, ma nient’affatto asettica, con rallentamenti e espressività. Dopo aver volato sul Prestissimo, affronta l’Andante molto cantabile ed espressivo, movimento monstrum giocato sul tema e variazioni, espediente compositivo tanto caro a Beethoven. Proprio a questo punto ho percepito nettamente la sua principale caratteristica pianistica: la virilità, una vitalità prorompente, fresca, marcatamente maschile. La lettura e l’esecuzione è sempre netta, a scapito, però, di talune sfumature che andrebbero interpretate con spirito diverso, più delicatamente pensoso, più femmineo (o androgino, se si preferisce).
Come che sia, eccettuata qualche piccola imperfezione, l’esecuzione del movimento è pregevole: lo stacco della mano destra è netto, pulito. Proprio il tema e variazioni gli permette di mostrarci le sue abilità coloristiche, e anche quelle più tecnicamente percussive, energiche – senza contare il virtuosismo delle scale di taluni passaggi. Ma un tocco lievemente più delicato, soffuso, proprio non lo possiede: non che non sia in grado di produrlo fisicamente. Credo piuttosto non lo concepisca emotivamente. Anzi, forse proprio non appartiene al suo pianismo virile. Nell’Adagio sostenuto della Sonata in do diesis minore n. 14 op. 27 n. 2 riesce a creare un’atmosfera lunare, acquatica, che rende giustizia del titolo apocrifo che la sonata di Beethoven porta: “Chiaro di luna”. Sull’ipnotica serie delle terzine staglia bene l’indugiante melodia: ma gli manca (ancora) quell’impercettibile quid emotivo,avvertibile in qualche celebre esecuzione, quel senso di reale abbandono contemplativo, che va oltre l’esecuzione fisica del suono. Ottimo l’Allegretto e eccellente il Presto agitato, dove sguazza nelle sue acque, giocando con il virtuosismo verticale di questo movimento: le sue mani lisztiane, affusolate, sono il mezzo migliore per esprimere questo pianismo. Ma non si dimentichino le sue abilità coloristiche e la capacità di giocare coi volumi, di creare piani sonori differenti. Proprio queste caratteristiche, infatti, gli permettono di regalarci una magnifica esecuzione di una silloge degli Études d’exécution transcendante.
Poteva mancare, in tale antologia, Mazeppa? Romanovsky ne interpreta la sfrenata corsa con forte polso, staccando e tornendo gli accordi, indugiando a tratti, per poi riprendere la sfrenata velocità, di grande potenza. Romanovsky ha poi scelto di eseguirci uno studio più placido, Feux Follets, ossimorico rispetto a Mazeppa: con quale perizia sgrana l’infinita serie di noticine che sguisciano da una parte all’altra, veri fuochi fatui fatati. La parentesi paludosa dura poco: ecco Wilde Jagd ed ecco il miglior Romanovsky, il virtuoso caratterista, che ben rende la spettrale battuta di caccia scolpendo i suoni, inseguendo un’energica frenesia difficilmente imbrigliabile, che termina – dopo sonorità più chiare – in una bacchica e cupa cadenza finale. Conclude la serie con l’Allegro, agitato molto, notevolissimo per espressività e compartecipazione. Il concerto si conclude con la virtuosistica serie delle Variazioni su un tema di Paganini op. 35 (I e II libro) di Johannes Brahms. È uno show di talento: tocco, salti, cambio e accavallamento delle mani, scale, ottave, il tutto dosato con perizia e con grande intelligenza d’esecuzione, con occhio sempre vigile al colore del suono. Dopo numerosi e calorosi applausi, Romanovsky regala al pubblico il celebre Studio op. 10 n. 12 di Chopin, la “Caduta di Varsavia”.