di Stefano Ceccarelli
La stagione dell’Istituzione Universitaria dei Concerti (IUC) continua a regalare ottimi concerti nell’aula magna della Sapienza. È ora la volta di Sara Mingardo e di Federico Ferri che dirige l’Accademia degli Astrusi: proprio un concerto che ci si aspetterebbe di ascoltare alla IUC, sempre attenta a proporre l’esecuzione di un repertorio d’élite, per palati fini. Il concerto, che vede il ritorno alla collaborazione fra la Mingardo e gli Astrusi, comprende musiche vocali e strumentali di Antonio Vivaldi e Baldassare Galuppi affiancate dall’esecuzione del celebre Salve Regina di Giovan Battista Pergolesi. Un concerto ottimo, calibratissimo nell’alternanza armonica tra musica strumentale e vocale, fra sacro e profano, impreziosito dalla smagliante voce della Mingardo.
ROMA, 7 novembre 2015 – L’Istituzione Universitaria dei Concerti (IUC) ci fa ancora una volta sognare. Questa volta è un repertorio sovente dimenticato, desueto, quello che propone al nostro ascolto. L’Italia aveva, a cavallo fra XVII e XVIII sec, due grandi capitali musicali: Venezia e Napoli, dove cominciavano a sorgere istituzioni che si sarebbero poi trasformate nei moderni conservatori. La musica diveniva, col teatro d’opera, quasi genere di consumo; i concerti erano richiestissimi e se ne produceva a iosa. Molto di quel patrimonio è andato, inevitabilmente, a naufragare; qualcosa si è salvato, per la gioia delle nostre orecchie. Proprio a quel materiale, a quella tradizione attingono Federico Ferri e l’ensemble l’Accademia degli Astrusi, barocchisti doc. La loro bravura e preparazione sono sovente impegnate nel riscoprire perle obliate di questa poderosa tradizione, che il mondo ci invidiava. E lo fa tuttora, con qualche consapevolezza in più vista l’epoca di Baroque renaissance che stiamo vivendo. Il concerto si apre con l’esecuzione della Sinfonia a 4 in si minore “Al Santo Sepolcro” per archi e basso continuo RV 169 di Antonio Vivaldi: il controllo perfetto degli archi, il gioco di volumetrie e timbriche sospese, a tratti spettrali, che il pezzo esige, la fuga nel secondo movimento, ci fanno subito capire di che pasta son fatti gli Astrusi. Ecco entrare Sara Mingardo, accompagnata da un caloroso applauso, e esordire con un suo cavallo di battaglia: il Salve Regina in fa minore per contralto, archi e basso continuo di Giovan Battista Pergolesi, lo stupor Neapolis (una polizianesca «tenera vite» troppo presto recisa al mondo). La partitura del Salve, già eseguita dalla Mingardo assieme agli Astrusi, fa da pendant – Pergolesi ha usato lo stesso materiale melodico in più di un passaggio –all’altrettanto celebre Stabat Mater (1736). Il trasporto è palpabile: la Mingardo ha un fraseggio divino, è capace di delicatezze soffuse. L’esecuzione è a dir poco magistrale: la sua voce si colora, si illumina a seconda dei passaggi. Si scurisce nell’incipit; si schiarisce nell’«Ad te clamamus»; si carica di drammaticità nell’«Eia ergo» e termina eterea. Il volume è praticamente sempre tenuto soffuso; due filati straordinari mi hanno particolarmente colpito: su «gementes» e sul «dulcis» finale. Dopo gli applausi, gli Astrusi attaccano il delicato Adagio del Concerto a 4 in sol minore per archi e basso continuo di Baldassare Galuppi, il Buranello: l’armonia perfetta fra gli archi, l’accompagnamento del basso, e i guizzi dei diversi strumenti, rendono giustizia dello stile chiaro e terso del brano, che gli Astrusi, del resto, ben conoscono. Sempre del Buranello la Mingardo esegue il desueto “A rupe alpestri” Aria per contralto, archi e basso continuo, una vera perla, un mottetto profano di taglio virtuosistico (la persona loquens sta manifestando il suo terrore per belve montane che la stanno inseguendo), che permette all’interprete sfoggio di virtuosismo e di diversi sentimentimusicali. La Mingardo adatta opportunamente la sua tecnica all’impresa. Entra con gagliarda energia, modula adeguatamente le cinque sezioni, gioca con i volumi e le coloriture, palesando un fraseggio più incisivo, scolpito, un’emissione più vibrata, e potendo sfoggiare un virtuosismo verticale (gli infiorati salti su «languendo tremit»). L’esecuzione è vivamente emozionante e ben si merita il caloroso applauso tributatole. L’ultimo brano strumentale è il vivaldiano Concerto “Madrigalesco” in re minore per archi e basso continuo RV 129, breve ma di qualità: ancora una fuga, anzi due, ne costituiscono l’impalcatura. L’entrata delle parti è praticamente perfetta e il brano risulta godibilissimo. Chiude il concerto “Cessate, omai cessate” Cantata per contralto, archi e basso continuo RV 684. La Mingardo può ora tirar fuori tutta la sua voce: il volume si apre, l’espressione si fa concitata e poi si raddolcisce («di toglier al mio cor riposo e calma»), tipico atteggiamento sentimentale di un amante tormentato. La successiva aria «Ah, ch’infelice sempre» è un capolavoro d’orchestrazione vaporosa su cui si stagliano i lamentosi singulti dell’amante infelice: la Mingardo si adagia in una barcarola tripartita che ha la sua cadenza su «lagrimar», dove la cantante ci dà ancora prova delle sue capacità. Dopo un altro recitativo dall’allure gluckiana, è la volta della seconda aria, «Nell’orrido albergo», il cui carattere è agitato, energico: com’è noto, lo sfogo iroso nelle convenzioni barocche si rappresenta con una scrittura infarcita di ogni difficoltà, che la Mingardo affronta perfettamente, terminando con una nota da autentico contralto, grave e tornita – attestante la sua ragguardevole estensione e la chiara emissione in tutti i registri della sua gamma vocale. L’applauso è fragoroso.
Per fortuna il concerto è stato mandato anche su RaiRadio3, così da poter essere goduto da tutti. Fra gli applausi e non senza una punta d’ironia, la Mingardo introduce il bis: «non è proprio nelle mie corde, ma…». E attacca la celeberrima «Ombra mai fu» dal Serse di Händel.