di Roberta Pedrotti
La storica formazione morava in concerto a Bologna offre una magnifica lettura del proprio compositore eponimo, mostrando anche eloquente saggio della propria personalità in Beethoven e - con l'apporto della pianista Ang Li - Brahms.
BOLOGNA, 16 novembre 2015 - Se il Quartetto Janáček, storica formazione attiva – con inevitabili avvicendamenti nell'organico – dal 1947 ha scelto questo nome c'è una ragione profonda che va al di là del giustificato orgoglio moravo (il complesso si costituì in seno al conservatorio di Brno) e si palesa in una profonda affinità con la scrittura del sommo connazionale.
Non stupisce, dunque, se in un programma pur di tutto rispetto è il Quartetto n.1 "Sonata a Kreutzer" a regnare incontrastato come centro della serata. Il linguaggio di Janáček calza geneticamente a pennello agli interpreti, ambasciatori di una sonorità peculiare, di un timbro slavo traslucido e ombreggiato nei colori dell'ambra netto e ben definito. La sintassi formale è giocata, pur nell'apparente adesione alle strutture classiche, su moduli ricorrenti, variati, variati, assemblati di volta in volta secondo una logica che appare straordinariamente trasparente e intelligente. E basterebbe solo il passaggio sul ponticello del secondo movimento, se dovessimo ricordare un momento, ad affermare il livello tecnico del Quartetto, la capacità di restituire un lirismo inquieto, radicato nella tradizione, permeabile alle perturbazioni del suo tempo, acuto, meditato e sofferto. Per questo un po' spiace il paradosso di una presentazione (a cura di Maria Chiara Mazzi) che sembra voler rassicurare chi vede nei concerti classici il confortevole appagamento di una parentesi “rilassante” in una piacevolezza senza sorprese, insistendo sul fatto che Janáček non proponga le “belle melodie che amiamo in Beethoven” e che per questo “può non piacerci”, ma “bisogna capire che quella è la musica del suo tempo”. Al di là del fatto che il povero autore di Jenufa, contemporaneo di Puccini, non era certo un sovversivo musicale, un avanguardista d'assalto e che la sua musica è normalmente di fruibilità abbastanza accessibile, anche in un'estrema semplificazione a scopo didattico il rinchiudersi negli angusti confini di una separazione manichea fra il piacere tradizionale della “bella melodia” (categoria alla quale Beethoven non si può proprio ridurre) e un modernismo da accettare non senza una qualche rassegnazione è difficile da digerire. Tanto più che Janáček, come tutti i grandi venuti prima di lui, con lui e dopo di lui, di per sé dimostra come il fascino dell'arte sia anche e soprattutto il mettersi in gioco intellettualmente ed emotivamente di fronte a nuovi stimoli.
Tanto più che Janáček, questa sera, ci entusiasma persino più di Beethoven, il cui Quartetto n. 10 in Mi bemolle maggiore op. 74 “delle arpe” è senza dubbio reso ad alto livello in una lettura di grande chiarezza, ma con un'incisività interpretativa e una quadratura nell'intonazione meno a fuoco, complessivamente, rispetto al volo subito dopo spiccato con il magnifico Quartetto del moravo, pezzo di per sé di notevole bellezza a cui è stata resa piena giustizia.
Nella seconda parte ai quattro strumentisti moravi si unisce la pianista cinese Ang Li per il Quintetto di Brahms, pezzo di complessità tale da destare le preoccupazioni perfino di Clara Schumann, sorta di sinfonia contratta e prosciugata nella sua forma più essenziale, di sonata amplificata, di pensiero musicale ampio e intimo che, in una tormentata gestazione, ha stentato a trovare la sua esatta collocazione strumentale. Parimenti, l'esecuzione è parsa in progress, evolvendosi da un primo movimento in cui quartetto e pianista parevano scrutarsi e studiarsi, prendere le misure dei tempi, piuttosto spediti nelle chiare intenzioni della Li, e delle sonorità, che vedevano la tastiera far la parte del leone, favorita sugli archetti anche dall'oggettività acustica in una sala come quelal del Manzoni. Man mano che i movimenti s'avvicendano, prende sempre più forma anche l'equilibrio, la coesione, la complicità che conduce alla conclusione, con il terzo (Scherzo: Allegro e trio) e il quarto (Finale: Poco sostenuto e Allegro non troppo) incalzanti, coinvolgenti, ben a fuoco come il risultato di un processo dialettico, di un tormento creativo e di un dibattito costruttivo.
Fra gli applausi, un gradito bis: il terzo movimento dal Quintetto di Brahms, conferma di una qualità tecnica e musicale, ma anche di una personalità artistica forte e peculiare, senza compromessi, in tutti gli interpreti.