di Stefano Ceccarelli
Tutti amiamo Wolfgang Amadeus Mozart. Alexander Lonquich non solo lo ama profondamente, ma ne è anche eccellente interprete: nella duplice veste, peraltro, di pianista e direttore d’orchestra. Molti amano anche Haydn, che fu un genio, forse dalla cornucopia meno melodica di Mozart, ma tant’è. Lonquich ci dona due splendidi concerti per pianoforte e orchestra del salisburghese: il K 449 e il k 482. Dell’austriaco Haydn Lonquich dirige l’ironicissima Sinfonia n. 92 in sol maggiore “Oxford”. Il concerto è un successo assoluto: l’armonia fra l’orchestra da camera di Santa Cecilia e Lonquich è impressionante.
ROMA, 17 novembre 2015 – «Mozart è tutto, tutto sta in Mozart». Così apre il suo capitoletto mozartiano Piero Mioli nella mirabile quanto breve Storia dell’opera lirica. Chi potrebbe negarlo? Non certo il pubblico assai compiaciuto e divertito che ha applaudito un ispiratissimo Alexander Lonquich alla guida dell’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia nella duplice veste di direttore e solista al piano: un po’ come si faceva proprio ai tempi del salisburghese. Mi si scuserà se citerò troppo spesso Paolo Gallarati, illustre autore delle pagine mozartiane e haydniane del programma di sala: ma non potrei trovare parole migliori delle sue. L’armonia fra Lonquich e l’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia (all’uopo sfrondata) è stupefacente. Lonquich si fa capire con gesti rapidi, tendendo tutto il suo corpo nella direzione ritmica della partitura, suggerendo con le mani il volume, il carattere di ogni passaggio. Gli orchestrali tutti l’assecondano alla perfezione: il suono degli archi è morbidissimo all’inverosimile; quello dei legni sempre consono, mai sforzato né pesante. La resa sonora garbata e gentile è effetto di una perizia incredibile. Lonquich sceglie di incominciare con il Concerto per pianoforte e orchestra in mi bemolle maggiore K 449. L’Allegro vivace (I)è un’autentica magia: «questo movimento rappresenta, infatti, la sublimazione dello stile galante […]. L’elemento decorativo, infatti, è onnipresente: i motivi che s’arricciano in disegni minuti, i pungenti incisi di note ribattute, i trilli, che cinguettano o rullano ovunque, nella parte solistica e in quella orchestrale». Lonquich non fa quasi in tempo a eseguire la sua parte che già salta dallo sgabello per dirigere gli orchestrali: il timing è perfetto, l’esecuzione pianistica morbida, vellutata, attenta a effetti accentativi. Gli interpreti hanno perfettamente testimoniato quel «certo tasso di euforia» necessario all’esecuzione del pezzo. L’Andantino (II)ci proietta in una dimensione placida: Lonquich e gli accademici screziano ogni passaggio con delicatezze talora soffuse, talora fiorite. V’è un perenne scambio di gentilezze fra il pianoforte, gli archi e i legni: «l’ambito espressivo continua a essere quello del grazioso: ma depurato di ogni smanceria galante e assunto come espressione di affettuosa intimità». Un’accennata austerità è palpabile, nell’Allegro ma non troppo (III), nella «vena contrappuntistica che impegna pianoforte e orchestra in un fitto gioco di combinazioni imitative, condotte senza la minima pedanteria scolastica»: l’esecuzione è perfetta, infusa della consona cantabilità. Lonquich si sveste dell’ansia dell’interprete per tuffarsi nella gioia dell’esecutore. Lonquich Mozart lo esegue: e ne è esecutore sommo, instancabile, palesando tutto l’amore per quello che suona. Non si sforza di proporci una sua filosofia sonora di Mozart: lui lo suona Mozart. E dà l’idea di poter star lì a suonarlo per ore, a memoria. Con la medesima passione impugna la bacchetta per dirigere la Sinfonia n. 92 in sol maggiore “Oxford” di Franz Joseph Haydn. Della scrittura sinfonica Lonquich esalta ogni significato sonoro e semantico, lasciandoci godere tutta l’arte di Haydn. E la Oxford ben testimonia l’innata ironia haydniana, gioiosa ironia, volterriana, illuministica: del resto, «forse nessun altro artista del Settecento ha saputo interpretare con maggior poesia la lucidità della ragione illuministica, colta nell’atto di ordinare la varietà del mondo». Dell’Allegro (I) coglie magnificamente le volumetrie argute e fantasiose; dell’Adagio (II) il senso di sospensione e di sorpresa; il Minuetto (III), dalla più marcata e deliziosa vena melodica (il Trio è una bomboniera dal sapore campestre), è colto da Lonquich nella sua essenza di infinita grazia, ancorché energica; infine, il Presto, autentico «argento vivo», sorprendente nei suoi giochi timbrici e nell’intelaiatura orchestrale fitta ma sempre naturale. Magnifica esecuzione.
Il secondo tempo è dedicato al mozartiano Concerto per pianoforte e orchestra in mi bemolle maggiore K 482. Ancora Lonquich mette in campo il suo pianismo naturalissimo, antiretorico, mai atteggiato o affettato. Il suono è porto con franchezza e nitore. Il virtuosismo acquatico, il tocco fatato, l’urbano volume sonoro sono pregi che hanno reso indimenticabile l’esecuzione del concerto. L’Allegro (I) affianca talune serietà alla naturalezza tipicamente mozartiana: «il pianoforte divaga liberamente in meravigliosi passaggi virtuosistici», creandosi un’armonia perfetta con l’orchestra. L’Andante, caratterizzato da un’allure di languida tristezza, permette a Lonquich di far cantare il pianoforte con le sue mezzevoci, partorendo soffuse atmosfere, che si vanno aprendo in squarci più sereni (l’intervento dei legni), che suggeriscono al pianoforte «frondose variazioni»: «è lo stesso clima romantico, che avvolge la scena notturna del giardino, nel quarto atto delle Nozze di Figaro». L’Allegro (III) è tra i vertici assoluti del pianismo e del genio compositivo mozartiano: il celebre primo tema è attaccato con uno squisito staccato, con garbo (e il tema possiede una qual gioia naïf) e sviluppato nella più rosea armonia fra solista e orchestra. La magia continua: Lonquich è incredibilmente ispirato, dirigendo con un’agogica tale da permettere di far cantare ogni parte dell’orchestra, in un clima di virtuosa (e virtuosistica) rilassatezza. A dimostrazione che Lonquich potrebbe suonarci l’intero corpus dei concerti per pianoforte e orchestra di Mozart, come bis ci regala il patetico Adagio del K 488, dimostrandoci che la musica di Mozart è fatta della stessa materia di cui sono fatti i sogni.