di Francesco Lora
Le sinfonie di Mahler riempiono la settimana concertistica viennese: l’ultima della serie impressiona, con Daniel Barenboim e i Wiener Philarmoniker, in una lettura inesorabile al Konzerthaus
VIENNA, 16 novembre 2015 – A Vienna, il Musikverein è la prima casa dei Wiener Philharmoniker come il Konzerthaus lo è dei Wiener Symphoniker; ma le due orchestre operano entrambe nell’una e nell’altra sede, facendo risuonare personalità contigue e differenti in spazi parimenti vicini e diversi. Non è dettaglio di poco conto ritrovare i Wiener al Konzerthaus per il concerto qui recensito: mattina del 15 novembre e sera del 16, sul podio Daniel Barenboim, in programma la sola e immane Sinfonia n. 9 di Gustav Mahler (1908-09); intorno, non la sala grande di legno e d’oro del Musikverein, nella calda acustica della quale a ciascuno par di tenere in mano uno strumento, bensì quella dell’auditorium pochi metri più in là, più vasta e fredda, dominata dal marmo, con le balconate che sembrano sedere in giudizio della musica anziché protendersi affettuosamente verso di essa.
La stessa mattina del 15 novembre, e poi ancora quella del 22, nel Musikverein era a sua volta il turno di Mahler: la Sinfonia n. 5 con la Lucerne Festiva Orchestra diretta da Andris Nelsons, sfavillante di fraseggio e bella copia della più scialba esecuzione data dai medesimi nove giorni prima a Ferrara; e la Sinfonia n. 1 con i Wiener stessi diretti da Lahav Shani, un giovane da tenere d’occhio in quanto capace d’incendiare come pochi altri la malia esotica e il furore dionisiaco dei filarmonici.
Ma nel Konzerthaus, con Barenboim, per la Sinfonia n. 9, è – e non potrebbe che essere – un altro Mahler. Gesto direttoriale grave, ampio, di una pesantezza ora possente e ora stanca, che si estende nello spazio quasi per colpirlo; pasta orchestrale di impressionante impenetrabilità: denso, solido, plumbeo, pulviscoloso, portato come la roccia opaca – e non come la Sinfonia n. 1 nel Musikverein – ad assorbire la luce anziché a riverberarla. L’ultima sinfonia completata da Mahler ne esce, inesorabilmente, per il testamento spirituale che costituisce: attraverso i suoi quattro movimenti essa pare qui allungarsi in un’unica colossale campata, variata nell’enunciazione ma non nelle intenzioni severissime, chiusa a ogni possibile estetizzazione e anzi crudamente compiaciuta dei suoi tratti scabri, disposta all’espressività sincera purché sempre con il pensiero fisso nel connaturato pessimismo. L’uditorio ascolta attonito; e il buio della replica serale partecipa al rito, in modo così diverso da come fa il sole viennese spandendosi in sala sui concerti mattutini. È il Mahler più asciutto e lacerante, in sé nonché secondo Barenboim. Ed è il Mahler per il quale i Wiener sono disposti a deporre smalto e oro per farsi dura terra.