di Roberta Pedrotti
Programma assai ambizioso, e potenzialmente affascinante, ma più d'una approssimazione (con una svista clamorosa nel programma di sala) per il concerto da Lothar Zagrosek, reduce ma un po' provato dal felice tour de force di Elektra. Applauditissimo solista al piano, Alexander Romanovsky debutta nel Secondo concerto di Brahms.
BOLOGNA, 26 novembre 2015 - Nel bis, l'alfa e l'omega; Alexander Romanovsky, solista al piano nella prima parte della serata, sintetizza nei due fuori programma lo specchio dell'intero concerto. Propone due estremi, lo studio n. 12 op. 10 di Chopin e la trascrizione di Siloti del Preludio in Mi minore BWV 855a (forse spurio) di Bach, un capolavoro di un genio del pianoforte e una rielaborazione dolciastra che annacqua la riflessione dell'originale. Entrambi, però, suonati benissimo, come si conviene a un grande della tastiera. Uguale e contraria è la macrostruttura della serata, che inanella, non senza ambizione, partiture di grande respiro e indiscutibile qualità in una resa esecutiva decisamente discontinua.
Si apre con il Secondo concerto per pianoforte e orchestra di Brahms, intelligentemente proposto nel cartellone bolognese a breve distanza dal primo [leggi la recensione]: il confronto fra le due partiture, separate da un'abbondante ventina d'anni nella creazione, è quanto di più eloquente della crescita brahmsiana e della padronanza acquisita caparbiamente con il tempo, da quel primo approccio quasi timido, quasi un'estensione ancora cauta di un pensiero solistico e cameristico, fino a un concerto esteso a proporzioni sinfoniche (quattro movimenti invece che tre), con una complessità di elaborazione e invenzione elevata ai massimi livelli e controllata con piena e sicura maturità. Un concerto che ha la sua essenza in un ampio respiro, in un disegno articolato nel quale lo strumento concertante è un tassello del puzzle, indispensabile, forse centrale, ma trattato alla stregua del violoncello solista con cui duetta nel terzo movimento, o del gruppo dei corni con cui condivide il tema incipitario. Romanovsky – si dice al suo debutto nella partitura brahmsiana – di fronte a tanta materia, che non richiede semplicemente virtuosismo quanto capacità d'analisi, pare comprensibilmente un po' prudente, forte, peraltro, di una tecnica eccellente, di una chiarezza e pregnanza di tocco, di un legato in cui ogni nota può esser perfettamente sgranata e accentata: tutte qualità che sembrano perfette per Brahms in generale e per questo concerto in particolare e che l'approfondimento e la frequentazione potranno mettere sempre più a frutto. Di che pasta sia fatto il pianista, peraltro, si intende benissimo nel citato studio chopiniano, tempestoso, elegantemente virile, impetuosamente composto, con mordente raro nella mano sinistra.
Sul podio Lothar Zagrosek cerca e spesso trova chiarezza e rigore, raggiungendo i risultati migliori nel dolce lirismo, nell'atmosfera soffusa cui Romanovsky impedisce di sciogliersi in languore del terzo movimento. La bacchetta è ottima, lo ha ribadito la recente Elektra [leggi la recensione], ma il direttore non è più un ragazzino e un po' di stanchezza, dopo il tour de force straussiano, si percepisce soprattutto nella seconda parte, con un'ouverture del Fidelio quantomeno claudicante, quando l'orchestra sembra distrarsi troppo facilmente, con interventi soprattutto dei corni (non impeccabili nemmeno in Brahms) che destano imbarazzo. Imbarazzo anche per la clamorosa svista contenuta nel programma di sala, che, nelle note di Gabriele Uggias, si dilunga descrivendo non il brano effettivamente eseguito, bensì la Leonore III, mentre la locandina intorbida vieppiù le acque non citando Leonore ("Ouverture Fidelio") ma apponendo un numero d'opus ("n.3 op. 72b") che alla Leonore III fa immediatamente pensare.
Beethoven è decisamente più sfortunato di Brahms, stasera, benché Zagrosek si affretti a riprendere il controllo della situazione e nel corso dell'oratorio Christus am Ölbenberge riesca a risalire la china e far quadrare i conti, cercando di cogliere con equilibrio il carattere peculiare di questo tardo classicismo che trascolora nel primo romanticismo. Certo, la partitura non è d'approccio immediato sia per gli interpreti sia per il pubblico: il giovane Beethoven appare attento al modello haydniano ma anche già proiettato al futuro e all'affermazione della propria personalità in tante soluzioni (i recitativi di Jesus soprattutto), alfiere di una fase della musica vocale tedesca, sia sacra sia profana, intermedia fra le esperienze colossali di Mozart e di Wagner, cosicché troppo spesso l'esecutore moderno si comporta come se fosse costretto a optare per l'uno o per l'altro opposto, come su un letto di Procuste che non comprenda vie di mezzo fra due estremi. Jesus indubbiamente ricalca moltissimo il linguaggio di Tamino, e Tamino in molte scene preconizza quelli che saranno Florestan, Max, Siegfried, ma questo ci suggerisce solo che i tenori non devono scegliere radicalmente fra ciprie da cicisbeo e pelli d'orso con elmi cornuti, che le distanze nei repertori si stringono e le sfumature si moltiplicano. Così il pur valido tenore Daniel Kirch non demerita, ma, avvezzo ai Parsifal e ai Fideli, appare sempre un po' in tensione in un testo che è pur sempre del 1802, non perfettamente a suo agio nei pur moderati passi melismatici della parte di Jesus. Viceversa, Patrizia Bicciré avrebbe nel suo curriculum le credenziali barocche e belcantiste per risolvere la parte del Seraphim, impregnata di reminiscenze della Regina della Notte, di Pamina e dei tre fanciulli, ma la voce appare ormai stanca, l'ascesa all'acuto indurita, faticosa, sovente fallita, la sua grande aria eccessivamente laboriosa e sottotono. Meglio il basso David Steffens, che nel ruolo meno esteso di Petrus fa ben sentire cosa dovrebbe fare un basso baritono tedesco alle prese con la grande tradizione oratoriale nella sua lingua. Il coro, ben preparato da Andrea Faidutti, si mostra decisamente concentrato e in forma.
Il pubblico che aveva festeggiato calorosamente il Brahms di Romanovsky e Zagrosek, ora reagisce con freddezza alle pagine beethoveniane, spunta qualche vuoto in sala, dopo l'ouverture di Fidelio gli applausi tardano, evidentemente perplessi, così come partono freddini dopo l'oratorio. Certo, in questo caso non ha giovato l'assenza del testo nel programma di sala: è pur vero che a caval donato non si guarda in bocca e che l'opuscolo è distribuito gratuitamente, ma in altre occasioni si era riusciti con profitto a inserire i testi cantati o avevamo visto proiettare al Teatro Manzoni le traduzioni dei versi, così come avviene per le opere al Comunale. Indubbiamente la possibilità di seguire nel dettaglio il contenuto – nei sommi capi arcinoto – dell'oratorio avrebbe giovato alla partecipazione del pubblico per quest'oretta densa di musica di non frequente esecuzione.