di Alberto Ponti
La Rachvelishvili e Josep Pons eseguono a Torino pagine del grande compositore spagnolo
TORINO 4 dicembre 2015 - Che il talento di Luciano Berio (1925-2003) si manifesti, al di là delle numerose composizioni originali, anche e soprattutto nelle trascrizioni e rielaborazioni di opere altrui ne hanno avuto, se mai ce ne fosse bisogno, ulteriore conferma i presenti al concerto di giovedì 3 e venerdì 4 dicembre all’Auditorium RAI di Torino. Erano infatti in programma le Siete canciones populares españolas di Manuel de Falla (1876-1946) nella versione per voce e orchestra del maestro ligure, dall’originale per canto e pianoforte. Ispirate al folclore iberico, filtrato e rivissuto da una raffinatissima sensibilità, queste liriche sono pagine di concisione quasi aforistica (l’insieme ha una durata di poco superiore ai dieci minuti), organizzate secondo una logica costruttiva che rivela la grandezza di un musicista di prim’ordine come Falla. Questo materiale di partenza si coniuga perfettamente con l’orchestrazione che Berio fece nel 1978, impiegando un’estesa compagine sinfonica utilizzata in prevalenza per singoli gruppi e strumenti, in cui ogni nota non va perduta, secondo un procedimento che, pur nella differenza di clima espressivo, richiama certamente le esperienze della seconda scuola viennese.
Ottima l’interpretazione del mezzosoprano georgiano Anita Rachvelishvili (1984), accompagnata sul podio dall’esperto direttore catalano Josep Pons, entrambi estremamente versatili, a fronte di un testo musicale di virtuosismo contenuto, nella resa della variegata temperie espressiva evocata dalla canzoni, in un climax che raggiunge il culmine nello sfrenato polo che chiude il breve ciclo in tempo di flamenco.
Nella seconda parte del concerto si è invece ascoltata, sempre di Manuel de Falla, la prima versione (1915) di El amor brujo, per piccola orchestra con gli interventi per la parte vocale della cantaora Maria Toledo. Elaborato in seguito come balletto, forma nel quale oggi è quasi sempre eseguito, espungendo alcuni passi e allargando l’organico orchestrale, il lavoro nasce in realtà come ibrida gitaneria pensata per la danzatrice e cantante andalusa Pastora Imperio. Il merito principale di Pons e Toledo è di aver aver fatto rivivere la partitura con quella naturalezza di linguaggio che solamente due spagnoli di nascita e formazione possono vantare, senza mai rifugiarsi nel folclorismo di facciata o nel didascalico, ma anzi raggiungendo un’oggettività e un’asciuttezza del suono che ben si addicono a un classico del Novecento.
La bravura delle prime parti dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, ridotta per l’occasione a quattro fiati, una decina di archi e un pianoforte, ha fatto il resto, tanto che in celebri pagine come la Danza rituale del fuoco e la Pantomima si sono raggiunte quell’intensità e quella tensione che a volte tendono a sfuggire nella successiva versione per un normale organico orchestrale.
Un successo indiscutibile è stato tributato a tutti gli interpreti da un pubblico non numerosissimo ma assai attento che aveva mostrato di apprezzare anche, in apertura di serata, quattro danze tratte dal balletto Estancia dell’argentino Alberto Ginastera (1916-1983), ispirato dalla vita rurale del suo paese. Musica a forti tinte, tratteggiata con grandi pennellate di colore orchestrale, sostanzialmente aproblematica e particolarmente trascinante nella Danza final accesa da un roboante, sincero motorismo.