Fiat lux!

di Roberta Pedrotti

L'inaugurazione del Bologna Festival 2014 è affidata all'oratorio di Haydn diretto da Philippe Herreweghe, che dedica la serata a Claudio Abbado. Ancora una volta Die
Schöpfung si conferma un vertice assoluto della storia dell'arte e del pensiero umano, una imprescindibile pietra angolare che rivela ad ogni ascolto nuovi preziosissimi dettagli.

BOLOGNA, 16/03/2014 - La Storia non può considerarsi una maestosa sfilata di exempla e monumenti. In nessun caso.
Eppure, nel suo procedere tortuoso, ramificato e dialettico, è impossibile non riconoscere dei colossi che, inevitabilmente, segnano un'epoca, una summa e un riferimento di tale altezza da rimanere visibili anche a grande distanza, mirabili e terribili oggetti di reverente rispetto, come il massiccio della Jungfrau cantato da Byron nel Manfred.

Tale è Die Schöpfung di Haydn, una di quelle sorgenti inesauribili di bellezza e intelligenza musicale che si rivelano ad ogni ascolto come la prima volta, che compendiano mirabilmente la storia di un genere (l'oratorio) e segnano un imprescindibile punto di non ritorno per la storia della musica a venire. Di questa partitura si pascerà, avido, l'adolescente “Tedeschino” Rossini, che mostrerà d'aver assimilato assai bene la lezione sviluppandola vieppiù nella scena delle tenebre e della riapparizione della luce di Mosé in Egitto, ma è difficile non pensare alla sua influenza anche su Beethoven; Haydn a sua volta guarda a Händel, al Messiah, ma anche all'opera – e ai generi apparentemente meno elevati del Singspiel e dell'Intermezzo – con un preciso e lucidissimo disegno ideale.

Tre parti, ciascuna con tre personaggi, le prime due consacrate alla Creazione vera e propria, narrata e commentata dagli Arcangeli Raphael, Gabriel e Uriel con il coro celeste e scandita ancora secondo un principio trinitario di crescente, gloriosa, intensità e complessità: un unico terzetto nella prima parte, come finale, due nella seconda, a metà e ancora in solenne chiusura del processo creativo. I terzetti delimitano quindi tre sequenze della stessa opera divina, con un ritmo sempre più stretto: i primi quattro giorni con il mondo inanimato e il regno vegetale: il quinto giorno con le creature del mare e del cielo; il sesto giorno con le creature della terra e l'Uomo. Quattro giornate e un solo assieme nella prima parte, due sole e due assiemi nella seconda, la divina compiutezza della triade a sigillare la creazione.

Realizzata l'opera divina, la scena è ora per gli uomini e la forma prevalente è il duetto: dopo i tre terzetti degli Arcangeli abbiamo i due duetti di Adamo ed Eva, e non possiamo fare a meno di pensare alla dottrina pitagorica che postula la perfezione trinitaria e l'ordine positivo (e attivo) dei numeri dispari rispetto all'apertura e all'incompletezza dei pari. La cacciata dall'Eden, però, non è narrata, ma solo minacciata da Uriele nel recitativo finale e di fatto il passaggio dalla Trinità alla coppia (e, nel finale, al solo coro quattro voci, cui si uniscono i solisti con l'aggiunta di un primo contralto) può essere letto come il principio del libero arbitrio, di un percorso di scoperta e di crescita, di una dialettica che dalla Creazione procede in un cammino continuo, che dal dogma e dalla teologia passa alla Storia.
Ecco allora che il cantare purissimo dei piaceri dell'amore e della natura, della bellezza del Creato e dei frutti della terra assume i toni illuministici del duetto Pamina-Papageno, con il suo inno all'Amore e all'Umanità, né deve stupire l'allusione che Carlo Vitali coglie, nel suo saggio introduttivo, alla Serva padrona di Pergolesi.
Dal divino si passa al mondano, dall'ideale al reale, quella che potrebbe sembrare solo la celebrazione finale della Creazione da parte dell'unica creatura consapevole è in realtà l'inizio di una nuova storia, tutta da scrivere.

Quale inaugurazione migliore, dunque, per un Bologna Festival che quest'anno propone un cartellone davvero sfolgorante, con ospiti illustrissimi? Illustrissima è anche la locandina di questa Creazione con Philippe Herreweghe a capo dell'Orchestre des Champs-Élysées, del Collegium Vocale Gent, dei solisti Christina Landshamer (soprano), Maximilian Schmitt (tenore) e Rodolf Rosen (baritono), cui si aggiunge nel finale, non indicata in locandina, il contralto, che ci è parso di riconoscere come Cécile Pilorger.
Dopo una sentita dedica a Claudio Abbado da parte dello stesso Herreweghe a nome di tutti i musicisti, sorge il Caos, e dal Caos, giorno dopo giorno, il Cosmos. Ascoltare finalmente un'orchestra che con strumenti d'epoca sappia proporre la qualità e la precisione di una moderna formazione sinfonica è un piacere raro e inebriante. Tanto più in una partitura che a ogni ascolto si rivela più preziosa per sensibilità, scienza e intelligenza nel rapporto fra parola, suono, idea e drammaturgia. Nell'assoluta, illuministica chiarezza imposta da Herreweghe, impressiona la capacità del coro di rendere un impasto timbrico veramente angelico, iridescente e astratto, senza mai perdere di qualità, senza scadere in sonorità linfatiche ed esangui. La pulizia luminosa dell'insieme, però, non va confusa con un olimpico distacco: l'equilibrio più terso non è per questo aproblematico, il richiamo all'Illuminismo comprende anche gli afflati sentimentali accolti da Rousseau, comprende la galassia intellettuale di uno dei più complessi e fecondi movimenti della storia del pensiero umano.

Dei tre solisti si ammira la squisita musicalità e l'adesione totale al testo, in un'omogeneità stilistica nella quale trova spazio un notevole impegno espressivo, in particolare quando soprano e baritono sono chiamati a differenziare il canto degli arcangeli da quello terreno dei progenitori. La dolcezza dell'emissione della Landshamer si piega egualmente all'estatica ispirazione di Gabriel e all'incantata, candida passione di Eva, Rosen debitamente ieratico come Raphael, virile ma non maturo come Adam. Non è da meno Schmitt, che presta una certa qual piacevole gagliardia tenorile all'autorità e alla sensibilità di Uriel.
Se un difetto si può trovare, consisterà in una divisione dell'esecuzione in due blocchi omologhi per durata e delimitati da terzetto centrale della seconda parte, ma non giustificati dalla struttura, geometricamente ponderatissima, dell'Oratorio. Peccato comunque veniale per una serata di classe superiore, degna di una capitale della musica quale Bologna, già centro nevralgico della dottrina e della formazione massime fra Sei e Settecento, ha tutto il diritto di ambire a essere. Applausi entusiastici e ritmati, ma soprattutto una soddisfazione che colma l'animo di fronte a un monumento che non cessa di suscitare reverenza, devozione, amore incondizionato.