di Roberta Pedrotti
Vladimir Jurowski torna a Bologna con la Mahler Chamber Orchestra, il baritono Gerald Finley e il soprano Sofia Fomina per un perturbante programma che ha come epicentro l'infanzia: dalla sincerità degli schizzi di Musorgskij alla parabola metafisica progressiva di Mahler, da Das Knaben Wunderhorn alla Quarta Sinfonia. Nel rapporto d'attrazione e incomunicabilità fra il linguaggio dell'età adulta, quello dei bambini il maestro russo coglie un'idea di arte inquieta e spettrale, tagliente come un bisturi.
BOLOGNA, 22 marzo 2014 - Fra le preziose pagine di Gianni Rodari si trova una manciata di versi intitolata Il sole nero: un padre affranto ascolta le più allarmanti interpretazioni di un disegno della figlia (“un sole nero di carbone | appena circondato di qualche raggio arancione”) prima rendersi conto che, semplicemente, il soggetto era un'eclisse. Il linguaggio dell'infanzia e quello del mondo adulto non s'incontrano, vuoi per un eccesso di speculazione da parte del secondo sulla semplice evidenza del primo, vuoi, viceversa, per l'estraneità a un libero cosmo di simboli, associazioni e metafore. Così, il fascino esercitato sull'arte dal mondo dell'infanzia è un fascino ambiguo, un richiamo più ideale che reale; tormentato, nostalgico e irresistibile.
Di certo il viaggio di Vladimir Jurowski attraverso la musica legata all'infanzia è tutto men che sereno e rassicurante, anzi pare basarsi essenzialmente sul potenziale perturbante di filastrocche, temi e poesiole sospese fra innocenza e sfuggenti sottintesi.
Le sette liriche composte (testo e musica) fra il 1868 e il 1872 da Modest Musorgskij, Detskaja (La camera dei bambini), sono schizzi d'intimità quotidiana, in cui castighi, litigi, dispetti e spaventi possono apparire tragedie cosmiche, salvo poi dissolversi in un battito di ciglia. Fiabe buffe e spaventose; una punizione ingiusta; l'incontro con un grosso coleottero minaccioso ma innocuo e moribondo; la ninna nanna alla bambola; una preghiera da imparare a memoria; l'intromissione nella caccia al canarino del gattone di casa; una fantasiosa galoppata sul cavallino a dondolo. Musorgskij sceglie la via della semplice naturalezza, non cerca significati nascosti, non allude a chissà quali sottintesi, ma aderisce rispettosamente alla lettera del linguaggio infantile, senza scimmiottare, sovrapporsi, sovrainterpretare. Anche l'orchestrazione che Edison Denisov ne realizzò nel 1977 segue l'idea originaria, lasciando al testo la possibilità di esprimersi in tutta la sua evidenza, evitando sia la banalità sia l'artificio e lasciando nel pubblico la sensazione straniante di uno sguardo riportato a proporzioni infantili, con dettagli ingigantiti, tempi fulminei o dilatati. È bravissima Sofia Fomina a trovare un colore bianco, un cipiglio imbronciato, stupito, avventuroso, tenero o compunto senza bamboleggiamenti. Jurowski suggerisce una sottilissima inquietudine, un gioco d'ombre e leggerezze che ci immergono nel mondo di questi bozzetti apparentemente innocenti, e in realtà vertiginosi proprio perché semplicemente reali, nella loro peculiare prospettiva. Nessuno vuol farci credere che il burdigone sia una metafora psicanalitica, né che costituisca un pericolo concreto, ma in quel momento noi lo vediamo con gli occhi del bambino spaventato, è un nero drago ronzante dai lunghi baffi frementi che disturba i nostri giochi in giardino, è una creaturina che agita le zampette al cielo morendo e suscitando stupore, compassione e diffidenza. E percepiamo quell'inafferrabile turbamento cosmico: non ci si dice che il sole nero è sintomo di un trauma nascosto, ma vediamo l'eclisse come tale, percependo che nel profondo nella nostra mente quell'immagine s'intreccia a sensi e sensazioni non esprimibili con la logica, le parole, le forme stesse dell'arte. Possono solo essere evocate, risvegliate, e Jurowski, con il soprano e la Mahler Chamber Orchestra, si fa maestro di questa sottilissima alchimia fra sogno e incubo, gioco e realtà.
D'altra parte, siamo testimoni di una di quelle serate di classe superiore, per le quali la definizione nella locandina del Bologna festival del ciclo “Grandi interpreti” pare semplicemente una constatazione doverosa e quasi riduttiva. Jurowski è uno dei più grandi direttori al mondo, uno di quei talenti che sembrano presentarsi già perfettamente formati a poco più di vent'anni (ricordiamo il debutto venticinquenne al Rossini Opera Festival nel 1997 con Moise et Pharaon e la felice esperienza successiva come direttore ospite al Comunale di Bologna) e che pure non cessano di evolversi nel tempo, di offrire sempre nuovi stimoli, letture acutissime che lasciano nella mente un seme di riflessione i cui frutti ci accompagneranno per sempre.
Aperta la serata con Musorgskij, accosta una selezione da Des Knaben Wunderhorn con la Quarta Sinfonia di Mahler. La chiusa parallela con l'intonazione di Das Himmlische Leben (La vita celeste) offre a Jurowski un'occasione straordinaria di finissimi scambi dialettici e giochi di contrasto fra le due partiture, costruendo una sorta d'unica arcata che esplora, attraverso le ballate popolari infantili raccolte da Arnim e Brentano, la poetica mahleriana, ponendola sotto una luce inedita, quasi spettrale.
Spettrale è in effetti il coup de théâtre con cui Gerald Finley, dopo aver intonato Der Schildwache, Des Antonius von Padua Fischpredigt, Wo die schönen Trompeten blasen, Lob des Hohen Verstands e Das iridische Leben (La vita terrena), si siede e lascia entrare la Fomina, per la stessa Himmlische Leben con cui chiuderà anche la Sinfonia. Il racconto della morte per fame del bimbo, nella sua fiabesca forma di ballata, è ancor più atroce, perché bifronte: nelle stesse parole, nelle stesse note, sentiamo il punto di vista del piccolo, sempre più debole, che vede, non comprende il motivo per cui gli adulti continuino ad attendere, a incoraggiarlo ad aspettare ancora, ancora, la semina, il raccolto, la trebbiatura, la macina, il forno; sentiamo il punto di vista della madre, che disperata, nella miseria, implora pazienza, mentre i cicli della natura non hanno pietà dei bisogni umani nel momento di estrema necessità. Finley, con una musicalità, un senso della parola e un gusto davvero eccelsi, aveva cantato prima il timore del giovane soldato; l'entusiasmo degli unici ascoltatori della predica del Santo, che si guardano bene, però, dal seguire nei fatti le sue parole; la dolorosa partenza per la guerra; la versione zoologica dello stolto e supponente giudizio di Mida fra Apollo e Marsia. Un campionario senza speranza di miserie umane, anche se incorniciato talvolta nella forma innocente della filastrocca, anche se intonato con sapide e giocose onomatopee (il raglio dell'asino). La voce celeste del soprano succede, come uno fantasma, a quella terrena del baritono e descrive un paradiso che ha ben poco di religioso o spirituale. Il bambino che, prima di morir di fame presumendo l'indifferenza degli adulti, aveva ascoltato o intonato storie di soldati pesci asini e uccelli canterini ora è una sorta di angelo annunciatore di gioie celesti che paiono ispirate a un atavico, carnascialesco immaginario contadino. I santi allegramente cantano e danzano nell'abbondanza d'ogni vivanda: frutta e ortaggi, carni e pesci. Tale lussureggiante, pagana fantasia, resta però un sogno, un'ombra inafferrabile, pare quasi che Jurowski la delinei sfuggente come un miraggio, la cui sensualità, pur presente, appare più come la distillazione di desideri irrealizzabili.
L'enigma della parola, del dolore universale circoscritto in piccoli bozzetti dalle rime popolari e infantili si sublima nella riflessione della Quarta sinfonia. È impressionante come Jurowski ne assimili tutte le diverse radici stilistiche e culturali e le riporti alla luce come per la prima volta, non già quale rigoglioso virtuosismo, ma nemmeno come espressione d'una personalità composita e dionisiaca, bensì in volute ora estatiche, ora ipnotiche, ora inquietanti d'una palpitante immagine della vita, colma di speranza e dolore. Il fraseggio sa farsi ampio, ma sempre tagliente, spettrale, ricco d'ombre, di ferite inesplorate e abissi sfiorati; l'incedere è danzante e seducente, ma cupo, livido, sorprendente, magnifico e terribile, verrebbe da dire, anche se permeato da tale perturbante grazia da non aver nulla di titanico e maestoso, quanto di sottile e ambiguo. E quando, dopo un terzo movimento d'indicibile rapinosa bellezza, Sofia Fomina invita a nuovamente a godere “le gioie terrestri schivando le cose terrestri”, rimaniamo parimenti ammirati dall'intelligenza dell'artista che, pur non disponendo di uno strumento vocale privilegiato, riesce a dare una diversa concretezza e maturità, una maggiore plasticità al suo canto rispetto alla purezza infantile e angelica esibite in precedenza. La ripresa della Himmlische Leben appare come la meta e la chiusura di un ciclo inesauribile; l'estasi dell'inno finale a Santa Cecilia, in cui con Jurowski si realizza un pianissimo collettivo di tale pienezza, leggerezza e trasparenza da apparire sovrumano, rende quasi impossibile esplodere in un applauso liberatorio, ancora completamente assorbiti dall'eco ineffabile di quanto, appena spento nella bacchetta, nel fiato, negli archetti, nelle superfici percosse, pare destinato a esistere per sempre.
Ovazioni, ma un senso d'intima spossatezza per cui ci pare di non poter esprimere e ripagare quanto il gesto acuto e spietato di Jurowski ci ha saputo offrire.