di Roberta Pedrotti
Per il Lugo Opera Festival, Elio e Roberto Prosseda (con il voltapagine Silvio) interpretano con spirito e intelligenza un bel programma che spazia da Mozart e Rossini fino a Weill, Lombardi e alla musica giapponese. Una lezione sulla serietà profonda dell'ironia e della leggerezza in musica, sulla passione e sulla curiosità fra callidae iuncturae.
LUGO, 15 aprile 2014 - «Rossini intorno ai trent'anni circa aveva già scritto tutto e si è ritirato; a trent'anni ha smesso di lavorare per darsi alle gozzoviglie e ha scritto musica con il solo scopo di far ridere i suoi amici, esattamente come noi di Elio e le storie tese abbiamo sempre fatto». Un paradosso perfetto, un parallelo fra due affermazioni egualmente non vere, ma ben fondate su uno stereotipo assunto ad autoironico emblema: l'ipocondriaco, nevrotico Rossini, autore di sublimi tragedie, si dichiarò “né pour l'opera buffa”, come una scherzosa diminutio, eco della fallace sentenza beethoveniana (“Non cerchi mai di fare altro che opere buffe; voler riuscire in un altro genere significherebbe forzare il suo destino”). Eppure non c'è diminutio nel saper giocare con la leggerezza, l'ironia e il disimpegno reali o simulati; l'intelligenza è nell'arte della dissimulazione e del porgere sorridendo anche la più alta sapienza, il più profondo contenuto, la più meditata costruzione formale. La danza fra autoironia e serietà, fra contegno, comicità e tragedia accomuna l'arte di Rossini e quella degli Elii, entrambe fondate su un sottile equilibrio che evita ogni volgarità e sul gioco di citazioni e variazioni che, fra parole e musica, costruisce una dialettica imprevedibile e caleidoscopica fra significante e significato. La grandezza comica, come e più d'ogni grandezza nelle arti, è fruibile a diversi livelli e ama questo tipo di gioco e di continuo mascheramento. Così, la statura universale di Aristofane consiste nel sapere che l'immagine di un Socrate appeso in una cesta a parlar con le nuvole avrebbe divertito tutti, anche un manovale semianalfabeta del Pireo, o, perfino, un ingnaro postero, ma che altre allusioni, altri riferimenti, altri contenuti sarebbero stati colti solo dal pubblico più informato e avveduto.
Ascoltando, poi, alcuni passi dell'Equivoco stravagante, o le ariette Nella stagion di maggio e Hai la sottana sembra inevitabile un'ideale callida iunctura con alcune canzoni di Elio e le storie tese (il primo pensiero va a Evviva/La visione, del 1999, ma non è certo l'unico), o l'incastro e la reinvenzione tematica di autoimprestiti rossiniani non possono non essere paragonati a quelli eterogenei di un pezzo geniale come La vendetta del fantasma formaggino (1992). Paralleli nascosti e, forse, involontari che si confermano metodo sofisticatissimo quando, per esempio, in Shpalman (2003) un tema di danza seicentesco francese (da Achille e Polixéne, incompiuta da Lully e completata dall'allievo Collasse), con testi e strumentazione nuove, trova una diversa dimensione esattamente come nella pratica antica della costruzione di brani liturgici su temi profani e popolari, o, ancora, dell'adattamento (barocco, rossiniano e non solo) di arie a diversi contesti.La citazione si fa talvolta esplicita e volontaria, come nella Canzone mononota (2013),che “Ha avuto i suoi antesignani | Uno su tutti: Rossini”, con, almeno, “Chi disprezza gl'infelici” da Ciro in Babilonia, o Adieux à la vie o, ancora Élégie sur une seule note.
Il legame fra Elio e Rossini pareva un'affinità elettiva già inevitabile dalle origini e che attendeva solo l'occasione di un incontro. Fu un colpo di fulmine vero, quello dell'estate del 1998, quando Stefano Belisari, polistrumentista e cantante diplomato in flauto al Conservatorio di Milano, noto come voce del gruppo Elio e le storie tese, debuttò al Rossini Opera Festival di Pesaro. Accanto a cantanti come Laura Polverelli, Lorenzo Regazzo, Simone Alberghini e Joseph Calleja era la Voce Rock in Isabella, sorta divertissement di Azio Corghi sull'incontro fra Rossini (e, ovviamente, L'italiana in Algeri) e il mondo dei giovani d'oggi, la loro musica e il loro linguaggio, un lavoro molto più profondo e articolato di quanto non mostrasse a un primo impatto la sua maschera leggiadra e scanzonata. Riparlarne oggi con Elio, al termine del concerto, smessi i panni dell'istrionico padrone del palcoscenico e riconosciuto in quelli del musicista serio e pacato, cordiale e appassionato, oggi come sedici anni fa è ancora illuminante, il ricordo affettuoso di quelle recite il tuffo nel passato di esperienze comuni di passioni, scoperte, esplorazioni.
Dopo quell'esperienza, ritrovare Elio a Lugo, la città d'origine della famiglia Rossini, ci pare la logica chiusura del cerchio. Il suo recital Bianchi, Rossini e Verdi si pare con Mozart, in realtà: con “Madamina il catalogo è questo” (circoscritta alla prima parte, fino a “d'ogni forma, d'ogni età”) e “Non più andrai, farfallone amoroso”. Di Rossini seguono “Largo al factotum” e “La calunnia”.
Non scimmiotta il cantante lirico, non lancia proclami divulgativi o crossover. È troppo intelligente per queste scorciatoie che restano in superficie. Dichiara il proprio amore di musicista e il piacere di condividerlo con un pubblico eterogeneo, nella speranza di aprire anche nuove prospettive d'ascolto anche a chi, come lui, veniva da un orizzonte musicale di qualità, ma lontano – apparentemente – da quello classico. Senza pretendere di far proseliti per la fratellanza fra generi musicali, ma solo sostenendo il piacere di conoscere e coltivare ciò che è bello, ciò che merita di essere conosciuto e coltivato. Proprio perché Elio canta con la sua voce risulta convincente: è lo stile che cambia – ma non lo spirito – e con lo studio ha perfezionato la sua tecnica in modo da ottenere i risultati che si è prefisso, da aderire alla partitura e poterla rileggere liberamente, come in una trascrizione o in una reminiscenza classica che, nel riviverla e rielaborarla, dichiari amore e ammirazione per un'opera, se ne appropri svelandone nuove sfumature. La precisione del gioco ritmico, fra adesione scrupolosa al testo e sorprendenti, irresistibili variazioni, è la sua arma principale, insieme con la duttilità espressiva, la misura sempre perfetta dell'accento comico, la personalità straordinaria dell'interprete e l'immenso rispetto del musicista. D'altra parte, chi conosca il repertorio di Elio ha ben presente quale perizia tecnica sia necessaria per gestire quel gioco verbale e musicale perpetuo, un meccanismo a orologeria nel quale il margine di improvvisazione è calcolato alla perfezione, per poter comunicare la leggerezza di quella struttura in realtà così complessa, esattamente come in Rossini la variazione e l'estro dell'interprete devono inserirsi in un discorso che esige la massima precisione, in concertati calibrati in incastri minutissimi, per i quali non è mai possibile perdere la concentrazione. Follia organizzata in entrambi i casi, fra significante e significato, intonazione, fonema e parola. Sempre di Rossini si ascolta Le petit train de plaisir (tradotto come Il trenino dei piaceri) e, con l'esecuzione acuta e luminosa di Roberto Prosseda, si apprezza una dimensione teatrale sovente limitata quando, come d'abitudine, è il pianista stesso a declamare le didascalie delle varie sequenze. L'avveniristica narrazione di un viaggio in treno si discosta dal futurismo giusto per la scarsa fiducia nel progresso, concludendosi con un deragliamento mortale, e potrebbe essere tranquillamente un ironico frutto di un'avanguardia novecentesca, di uno spirito surreale o dadaista, oltre che, appunto, futurista. Elio rimane misuratissimo, si limita all'interpolazione di giusto un paio di discrete battute, ma dipana tutta la sua capacità di usare la voce in ogni situazione, mantenendo il contegno irresistibilmente serio che ben gli si conosce. Parimenti La chanson du Bébé, in un'inedita traduzione italiana, moderna e pertanto efficacissima, perfetta per l'occasione, è un'altra travolgente ricreazione di spirito rossiniano, lontana da tanti stucchevoli manierismi ascoltati in contesti più pretenziosi, perché divertire veramente con la musica è una cosa terribilmente seria, e ben lo sapeva Rossini, che insinuava l'inquietudine nelle sue commedie, melanconiche o pirotecniche che fossero, o concedeva uno straniato e straniante distacco, uno spiraglio di luce astratta ai suoi eroi tragici. Due anni dopo Pesaro, nel 2000, Elio è stato Mackie Messer nell'Opera da tre soldi in scena all'Auditorium di Santa Cecilia di Roma. E dal capolavoro di Brecht e Weill ci propone la Ballata di Mackie Messer, il Corale mattutino di Peachum, la Ballata della schiavitù sessuale e la Ballata del magnaccia di cui lo stesso Elio ricorda la vicinanza tematica con la storica Pork e Cindy, dall'album capolavoro Italyan, Rum Casusu Çikti (1992, l'anno del bicentenario rossiniano). Il passo dal Rossini camerista e sperimentatore dei Péchés de veiellesse al Novecento del teatro in musica di Brecht e Weill, con il loro provocatorio acume sociopolitico e il loro sofisticato sguardo al cabaret e alle nuove musiche, sembra davvero breve e un cantante attore come Elio illumina al meglio l'intelligenza di questo parallelo.
Dieci anni dopo Pesaro, Elio è protagonista, sempre a Roma ma all'Opera, del Re nudo di Luca Lombardi (1945), ma la collaborazione fra i due risale ancora al 2000, quando cominciano a lavorare assieme a Minima Animalia, una serie di schizzi musicali dedicati ai cosiddetti “animali inutili”, come il Criceto, il Moscerino e la Zanzara, che ascoltiamo con le lacrime agli occhi e i crampi allo stomaco per le risate incontenibili, ma che tuttavia, ripreso fiato, non ci può far riflettere sulle strade della musica contemporanea. Talora, infatti, i compositori di oggi rischiano di prendersi dannatamente sul serio in un linguaggio autoreferenziale privo di reale sostanza, mentre Lombardi dimostra il buon gusto di lavorare di cesello e di bulino su un'ironia che fa pensare un po' a Esopo, un po' a Rodari, con una punta di cattiveria in più, in simbiosi totale con lo spirito surreale e sulfureo dell'interprete designato, che è anche autore dei testi. A punteggiare queste sequenze tematiche, brani tradizionali nipponici, tramutati in omaggi nonsense ai “numerosi appassionati di musica classica giapponese”. Anche nei bis, una canzone infantile del Sol Levante, trascina il pubblico in un delirio collettivo assolutamente straniato, mentre, tuttavia, ci si chiede, del titolo annunciato, che fine abbiano fatto Bianchi e Verdi. Di Gabriele Bianchi (1901-1974) ecco allora Arma azzurra, un pomposo inno all'Italia liberata nel 1946 che per lessico e stile ricorda però la peggior retorica di regime e che, dopo averla intonata con compunta partecipazione, Elio stesso liquida come “insalvabile: sia per testo sia per musica non c'è nulla, proprio nulla che non faccia schifo”, pur ammettendo che “per dire che una cosa fa schifo bisogna pur sentirla, abbiamo fatto il nostro dovere, ora possiamo rimetterla via”. Nulla è a caso, anche il gesto più astratto, quello più surreale, più comico o sussiegoso, nemmeno il brutto pezzo di Bianchi, come ci ricorda che la bellezza non è scontata e che lo spirito critico e il desiderio di conoscenza devo essere sempre vivi e vigili.
Anche l'omissione di Verdi ha un significato? Elio, fra il sincero e l'ammiccante, annuncia che “ce lo siamo dimenticati”. Non sappiamo se crederlo, ma non importa: proprio questo rende ancor più intrigante e sorprendente il gioco del concerto, che ha l'unico difetto di apparire troppo breve. Saremmo rimasti per ore ad ascoltare la voce multiforme di Elio e il pianoforte cristallino di Prosseda, con l'apporto impagabile del voltapagine Silvio, il cui protagonismo nella serata resterà gustosa prerogativa dei ricordi di chi, fortunato, era presente.