Parlando con Beethoven

di Roberta Pedrotti

Krystian Zimerman insegue, novello Don Chisciotte nella società telematica, l'utopia del concerto come evento unico, irripetibile e irriproducibile, del disco come opera d'arte da curare personalmente in ogni suo aspetto. Lo fa con lo spessore di un grande interprete, per cui la tecnica sublime e la cura pressoché manicale del suono altro non sono che gli strumenti linguistici per parlare direttamente con Beethoven e condividerlo con il pubblico.

LUGO, 22 maggio 2014 - Il dono dell'ubiquità, purtroppo, non è ancora di questo mondo e il nostro essere frale può risultare una zavorra alle legittime ambizioni, ma anche senza aver potuto presenziare in carne e ossa a tutte le serate, non possiamo non gioire della miracolosa concentrazione di un Olimpo pianistico, nelle ultime due settimane, intorno a Bologna. Andràs Schiff, Mikhail Pletnev e Grigory Sokolov per il Bologna Festival, Krystian Zimerman a chiudere il Lugo Opera Festival, e di più non domandar, c'imporrebbero a una voce il Virgilio dantesco e la Lucrezia Borgia di Felice Romani. Non si perde, dunque, l'occasione romagnola, tanto più che una serata nella città di Rossini e Baracca, incipiente la bella stagione, è sempre un piacere cui è difficile rinunciare. Costeggiata la Rocca fiorita di capperi e attraversato il Pavaglione che udì risuonare le voci di Caballé e Kabaivanska, ci aspettano il pianista polacco e Beethoven. Insieme, perché se in un recente concerto Zimerman ha affermato di “aver parlato” con l'autore del Fidelio (per concordare un fuori programma da dedicare dall'amico accordatore Tonino Rappoccio nel suo compleanno), sentendolo interpretare le ultime tre sonate c'è da credere che i due si frequentino sul serio, assiduamente. Attorno a ogni esibizione di Zimerman spira un'aura singolare data dall'attenzione spasmodica, e scrupolosamente ribadita, del pianista verso l'unicità della performance, sia nella cura maniacale dello strumento (sempre il suo personale), sia soprattutto nel rifiutare ogni tipo di registrazione, audio o video, o fotografia. Chi pensa male (e fa peccato) parlerà di marketing, o di posa studiata, chi non vede malizia sosterrà l'immagine dell'artista utopista, convinto del valore di un istante irripetibile, desideroso di curare le proprie esibizioni e la loro diffusione personalmente e in ogni minimo aspetto. E anche a noi piace accogliere con un affettuoso sorriso l'idea forse oggi donchisciottesca che si possa vivere un concerto – o qualsivoglia altra esperienza – senza filtrarla attraverso l'obbiettivo dello smartphone nell'ansia di condividere in rete ciò che avremmo semplicemente potuto godere con tutti i nostri sensi e tramandare con il ricordo. Ci piace l'idea che un disco sia una creazione a sé stante e non un prodotto seriale quale potremmo costruire in casa, con un qualunque registratore digitale e un programma gratuito di audio editing. Soprattutto ci piace constatare come dietro le parole, le raccomandazioni di discrezione e i proclami di amicizia e intimità con il pubblico, dietro la cura spasmodica del suono, ci sia la sostanza di un grande artista che veramente dà la sensazione di conoscere Beethoven come un vecchio amico con il quale non esistono segreti. È assai raro, difatti, potersi confrontare con una visione così chiara, netta, così unitaria e ispirata delle ultime tre sonate. Con un fraseggio così disarmante nella sua fluida naturalezza, che ci mette di fronte con ancor più lampante evidenza l'anacronismo di una musica che fra il 1820 e il 1822 poteva a buon diritto apparire folle (o dettata da un udito malato) e oggi ci porterebbe a indicare in Beethoven l'ideale ispiratore di H.G. Wells e della sua Time machine, per la preveggenza quasi visionaria perfino di jazz e swing. Eppure è viva anche la radice tedesca, con l'ombra di Bach che si materializza nella Fuga della sonata op. 31 senza però intimorire né Beethoven né Zimerman, che insieme la plasmano a loro piacimento, con un vigore dinamico e un'eloquenza di fraseggio davvero mirabile.

Che Zimerman sia appassionato organista lo si percepisce una volta di più dal suo trattamento della scrittura pianistica, dal suo tocco plastico che pare evocare registri anche in uno strumento che avrebbe abdicato alle risorse meccaniche di avi e parenti a tastiera rifulgenti d'inventiva barocca, eppure riesce miracolosamente a rivivere quell'eredità come linguaggio di tempi che a quel barocco possono guardare al massimo o come a una vecchia zia noiosa o come a un nonno saggio e arguto. E lo stesso amico Ludwig, da ragazzino, si era formato fra gli ultimi clavicembali e le sperimentazioni più o meno pionieristiche di fortepiani e pianoforti, con tutte le diavolerie meccaniche che i primi costruttori escogitarono per ampliare le possibilità timbriche di tastiere e corde percosse in via di perfezionamento. Parla con Beethoven nella leggerezza, nell'agilità perlacea, nella sensibilità sovrumana del tocco, in un respiro musicale capace d'illuminare la sua profondità delle sfumature più sottili, ma soprattutto, semplicemente, più giuste. Tali da apparire naturali e inevitabili, imprescindibili. Ci dimentichiamo così anche di due Argo occhiuti che nella mezzaluce scrutano la sala per assicurarci che nessuno contravvenga al precetto della rinuncia alla tecnologia casalinga. L'unica tecnologia ammessa è la più complessa: globi traslucidi che filtrino la luce verso una superficie che raccolga e trasmetta impulsi elettrici verso un complesso reticolo d'irripetibili connessioni cui convergono anche gli stimoli di microscopiche ciglia reagenti al movimento di un meccanismo d' ossicini sollecitati da una membrana che raccoglie onde sonore attraverso un padiglione, senza dimenticare un'altra miriade di informazioni contingenti o pregresse che s'intersecano in un complesso che diverrà poi parte integrante dello stesso sistema in futuro. Potrebbe bastare a impegnarci per decenni il solo pensiero, e invece in un'ora e mezza, intervallo compreso, tutto si compie. Applaudiamo con fervore, e anche quando un entusiasmo mal trattenuto esplode nel bel mezzo di una sonata viene stroncato da una parte del pubblico, che Zimerman ringrazia con un sorriso ammiccante, gentile e ironico che potrebbere essere quello di un affabile Babbo Natale in cui splenda la scintilla arguta di Mefistofele, ci sentiamo in qualche modo complici di questo pianista utopista che parla con Beethoven.