di Emanuele Dominioni
Apre il cartellone torinese una splendida edizione, potente e viva, del capolavoro sacro verdiano, concertato da Gianandrea Noseda con Erika Grimaldi, Daniela Barcellona, Gregory Kunde e Michele Pertusi.
TORINO, 30 settembre 2014 - Com’è noto il Requiem di Verdi venne alla luce in un periodo di forte crisi nella vita del compositore. Tale inquietudine era causata in primo luogo dalle spinte progressiste che appoggiavano l’avvento di una nuova musica in Italia (su modello di quanto stava avvenendo oltralpe con Wagner) e, d’altro canto, dalla ferma volontà del cigno di Busseto di ritirarsi definitivamente dalle scene, soprattutto dopo il trionfo di Aida e degli altri capolavori di poco antecedenti. Con quest’ultime opere, infatti, Verdi aveva portato a compimento un lungo processo drammaturgico, già intrapreso dai grandi ottocenteschi suoi predecessori, trasformando e riformando la classica struttura in numeri chiusi del melodramma romantico italiano.
Tali erano i postulati artistici ed esistenziali in cui Verdi si muoveva allorché vennero a mancare nel giro di pochi anni due grandi figure a cui egli si sentiva profondamente legato e grato: Gioacchino Rossini e poco dopo Alessandro Manzoni. L’idea di comporre una Messa da Requiem, infatti, risale proprio all’epoca della scomparsa del compositore pesarese, in seguito alla quale Verdi si mise alla testa di un progetto che coinvolgesse altri musicisti italiani onde onorarne la memoria. Destino volle che, dopo varie vicissitudini di carattere organizzativo ed editoriale, l’idea naufragò, e Verdi rinunciò a ogni intento di riprenderlo anche in relazione ad altri imminenti impegni che lo aspettavano: l’Aida al Cairo e poi alla Scala, e la composizione del Quartetto in mi minore. L’idea di dedicare un Requiem ad Alessandro Manzoni – all’epoca ancora in vita, ma quasi novantenne – arrivò probabilmente dopo l’incontro che i due ebbero pochi anni prima con l’intermediazione di Clara Maffei. La profonda stima e l’ammirazione verso l’autore dei Promessi sposi erano tali che Verdi tornò a Milano dopo vent’anni di assenza appositamente per l’incontro, rimanendone (come egli stesso scrive in alcune lettere) grandemente impressionato e commosso.
Senso di gratitudine, grande impressione e stima sono sentimenti che emergono e si confermano a distanza di più di un secolo, quando ci troviamo di fronte a esecuzioni come quella udita a Torino.
Gianandrea Noseda e i complessi del Teatro Regio ci offrono una serata smagliante di rara bellezza grazie alla personalità e al talento del direttore milanese, uniti ai frutti del lungo lavoro con tutti i musicisti dell’istituzione sabauda. Risorse quest’ultime che sono valse a rendere memorabile l’apertura di stagione 2014/2015. È infatti indubbio il grande salto di qualità operato dall’orchestra e dal coro, la cui strabiliante omogeneità di suono e l’unitarietà di intenti artistici sono sotto gli occhi di tutti. La lettura che Noseda fa del capolavoro verdiano è asciutta, nervosa e dettagliatissima. Una direzione che non cede nulla in termini di lirico abbandono o mistico intimismo: tutto il discorso musicale è teso, vivo e intensamente forgiato sia nei tempi sia nelle dinamiche scelte. Un grande affresco di michelangiolesco respiro.
Di primario valore anche il quartetto di voci soliste messo in campo per l’occasione. Il soprano Erika Grimaldi sostituiva Hui He. La voce è permeata di lirica morbidezza, a suo agio nei passaggi filati e di luminosità madreperlacea nel Recordare e nell’Agnus Dei. Altrove purtroppo manca di quella consistenza drammatica che la parte richiede. In questo senso la posizione dei solisti, posti fra il coro e l’orchestra alla sinistra del palcoscenico, ne limitava consistentemente la proiezione, con un calo di potenza espressiva che la Grimaldi ha sofferto soprattutto in alcune parti Libera me.
Daniela Barcellona può definirsi ormai una specialista della parte, avendola sostenuta svariate volte con i più grandi direttori d’orchestra degli ultimi tempi. Il colore accattivante e bronzeo, che da sempre caratterizza la sua vocalità, conferisce espressività e drammaticità ai suoi interventi, nonostante l’eccessivo vibrato in zona acuta e la stentorea linea di canto di alcuni passaggi.
Michele Pertusi si fa apprezzare per l’ottimo legato e la famosa pastosità del timbro. Il fraseggio nobile ed elegante gli consentono di dare luce a un’interpretazione del Confutatis che si distingue più per l’altera sprezzatura del porgere la frase, che per la tonante veemenza che caratterizzano altri bassi.
Gregory Kunde (chiamato anch’esso in sostituzione di un collega, Jorge de Leòn) trova qui un terreno fertilissimo per dare ancora una volta una prova superlativa della sua più che trentennale arte canora. La voce, sempre squillantissima e ben proiettata, riesce a essere modellata per conferire lirica eleganza all’Ingemisco e al Domine Jesus. Altrove alcuni pianissimi risultano innegabilmente instabili e schiacciati, ma si tratta di dettagli risibili in una linea di canto a tutt’oggi rimane di esempio per tutti.