di Valentina Anzani
Cinque giornate di successi per il RoBOt07, il festival bolognese dedicato alla musica digitale che ha ospitato numerosissimi creatori di suono e performer della luce, raccogliendo numerosissimi consensi.
Se si parla di musica elettronica, non possono che accorrere alla mente le sperimentazioni che dagli anni ’60 in poi si sono succedute grazie alle nuove possibilità offerte dalla tecnologia di modificare i suoni: la musica d’arte si evolveva, trovava nuove strade, non dipendeva più dallo strumento tradizionale, ma iniziava a intuire possibilità creative alternative. Dagli anni ’80 poi le strade della sperimentazione si dividono. Se da una parte vi erano i creatori di musica colta – compositori come Stockhausen, Maderna, Berio – che si erano serviti della tecnologia per farne strumento della loro espressione estetica, dall’altra si conformano generi di intrattenimento popolare diffusissimi e accessibili come l’hip hop, il funky, house, industrial... Sono stati generi musicali che hanno assecondato le necessità di intrattenimento delle masse, dei giovani che hanno cercato nuove modalità di aggregazione e che ora, quasi del tutto superate le caratterizzazioni di genere, ritroviamo nelle mani dei contemporanei creatori di suono digitale come materiale da rielaborare verso nuove sonorità. Bologna ospita da ormai sette anni il festival RoBOt, luogo in cui sperimentazioni e onori al passato trovano un punto di incontro nelle antiche sale del Palazzo Re Enzo – e da quest’anno anche nei padiglioni della Fiera – raccogliendo tra le sue fila nomi tra i più conosciuti del panorama internazionale e alcune tra le nuove leve più meritevoli di attenzione.
La manifestazione, prolungatasi per quattro giorni, è iniziata il 1 ottobre in un clima caratterizzato da un certo che di rigido, mai realmente fugato fino al suo concludersi. Il Palazzo Re Enzo è luogo affascinante per le sue grandi sale che creano un suggestivo contrasto con cavi elettrici, fari, illuminazioni psichedeliche e amplificatori, ma che accoglie freddamente il pubblico: mancano infatti luoghi dove sedere e comunicare (anche se questo pare un difetto che i festival italiani non riescono a sanare, a differenza di quanto accade invece in altri contesti europei). Il senso di disagio è diminuito con l’arrivo della folla, progressivamente affluita a riempire ogni corridoio, vano scala, salone e interstizio e il cui aumento numerico era direttamente proporzionale a quello dei volumi. A partire dal secondo giorno le sale aperte al pubblico sono triplicate, così come le esibizioni, di cui sarà impossibile rendere conto in maniera del tutto completa ed esaustiva, se non altro per la contemporaneità in cui avvenivano. Durante molte di queste nel grande Salone del Podestà, gli ascoltatori erano seduti a terra oppure sdraiati sui grandi cuscini al centro della sala in una modalità di fruizione composta e immobile, che riscattava la pulsazione dalla mera funzione di sottofondo per lo sballo, che voleva forse permettere di coglierne le finezze, ma che tuttavia lasciava insoddisfatta quella parte degli avventori che, rimasti in piedi, accennavano a qualche timido saltello, come in presenza di Valentin Stip. Da pianista a musicista da computer, ha elaborato atmosfere eleganti evocando ampi spazi, in cui momenti di lirismo melodico si alternavano a composizioni dai ritmi serrati.
Impossibile non balzare in piedi invece durante il bombardamento di battiti e luci del dj set di Nick Antony Simoncino, i pattern di sincopi claudicanti del duo Burnt Friedman & Jaki Liebezeit, le onde acute e flautate sopra groove tribali di Random Numbers. Per gli ultimi due giorni di Festival, il fulcro del movimento notturno sono stati i padiglioni della Fiera. A Palazzo Re Enzo sono rimasti i fedelissimi e i curiosi della sperimentazione, che hanno potuto assistere, tra gli altri, a James Ferraro e ai suoi campionamenti di rumori violenti per la costruzione di atmosfere apocalittiche e ineluttabili. Dietro di lui scorreva proiettata una selezione di scene di combattimento tratte da film fantascientifici di repertorio, esempio dei molteplici piani di suggestione con cui può agire il mondo digitale. Le proiezioni sono state parte integrante anche dell’attesissima performance combinata di Memoryman aka Uovo durante la quale due cameraman rimbalzavano sul maxi schermo dietro il dj le immagini di ciò che avveniva sul palco. Quello che si è visto come un film era la performance del writer calligrafo che professava su grandi superfici che “il futuro di ogni arte è nelle mani di chi la pratica con più energia”. L’entusiasmo dei fan in attesa è stato sovrastato dal potentissimo noise dai cambi improvvisi di pattern e dalle reminescenze funky che l’artista ha terremotato loro addosso e che ha avuto l’effetto di una scarica di energia. Le proiezioni hanno giocato un ruolo di importante supporto anche per la meravigliosa esibizione Jon Hopkins, accattivante soprattutto quando si è lanciato in passi dubstep: ad ogni suono campionato corrispondeva un’immagine animata, cosicché la sequenza sonora aveva una trasposizione visiva sullo schermo.
Definire coloro che agiscono digitalmente sul suono è un difficile compito: nella maggior parte dei casi non fanno vibrare qualsivoglia corda, eppure il nome di musicista o cantante è inappropriata per eccesso o per difetto: se coloro che si servono dei soli suoni campionati non possono dirsi musicisti poiché non suonano alcuno strumento, al contrario coloro che suonano qualcosa non fanno certamente solo quello. Artista è la denominazione ampia loro affibbiata, non per questo esaustiva. Protagonista del festival RoBOt è il digitale: l’elemento materiale è da ricercarsi dietro l'immagine, il suono, le proiezioni luminose. Se vi sono corde o membrane che vibrano, lo fanno solo perché il suono prodotto possa essere trasformato in un codice binario da immettere in un sistema computerizzato per poi essere campionato, modificato, mixato: plasmato. Anche l’uomo ne viene assorbito: chi guida la macchina dei suoni li domina, ma ne può essere anche un accessorio, come è stato per la performance The Enlightment di Quiet Ensemble, in cui l’elemento umano è ridotto al semplice camminare di tecnici luci che spostano fari. La performance, avvolta dal fumo, costruiva, in una pirotecnia di riflettori, architetture pulsanti di luci e suoni. Ascoltando questi ultimi – ricercati nei rumori d’interferenza, negli sfarfallii, nel frinire, nei sussurri, in battiti talmente ribaditi da restare (fantasmi) nelle orecchie anche quando fatti tacere – ci si chiede quale sia la differenza tra un suono voluto e un errore di collegamento di cavi o un calo di tensione nella trasmissione sonora digitale.
In molti casi però la presenza umana diventa necessità, tanto da essere il vero canale di trasmissione di energie, come è avvenuto per l’intensa esibizione dell’irlandese Wife, per il quale la presenza contemporanea di artista e pubblico si è rivelata fondamentale. Il cantante – contrariamente alla maggior parte degli esponenti del genere, i quali esistono quali “attivatori di onde sonore digitali” – si è reso presente con la propria fisicità, con il proprio corpo. A piedi nudi sul palcoscenico, interagiva infatti con il pubblico, cantando dal vivo e coccolando con la rielaborazione delicata della propria voce, pur non rinnegando le proprie origini dal repertorio metal: aggrediva infatti il microfono, per poi spostarlo lontano dalle labbra fino a dietro la testa ad usare risuonatori alternativi.
Il fatto che l’elettronica debba servirsi di amplificatori fa sì che possa essere fruita a un volume tanto alto da generare onde sonore molto forti, tali da conferire materialità all’elemento aereo. Il suono si percepisce prima ancora che con l’orecchio, con il corpo, tutta membrana che ne conduce la vibrazione al timpano.
Il momento musicale è al suo apice in presenza di numerosi fattori, ai quali il suono è debitore, come le luci e le masse palpitanti che danzano all’unisono. È stato così per le esibizioni degli artisti più quotati che hanno animato le seimila persone accorse agli eventi notturni tenutisi in Fiera, come per l’elettronica pura industrial e dubstep di Roly Porter, l’entusiasta Craig Richards, gli echi progressive di Dark Sky con il tocco vellutato della voce della cantante del gruppo.
Per la costruzione delle sonorità elettroniche non vi sono regole formali, se non quelle dell’asseverare, del ripetere. Ricardo Villalobos (che si è esibito nell’enorme padiglione della Fiera il 3 ottobre), ne è stato ben consapevole. Era salito sul palco sostituendosi al suo predecessore instaurando da subito un’atmosfera voluttuosa e sinuosa. La costruzione del suo sound avviene con l’aggiunta progressiva di elementi: prima un pattern ritmico cui ne aggiunge altri, seguiti da elementi melodici semplici e cori. Crea in questo modo una continua tensione consapevole di non permettere alcuna il distensione. Consapevole che gli basta una minima variazione per suscitare il deliquio generale, una volta raggiunto il sound voluto, lo mantiene in equilibrio per tanto tempo da rasentare la monotonia per poi azzardare una modifica nel battito, una discesa verso il grave, una sospensione, la sottrazione di una delle pulsazioni e le conseguenze sono immediate: il pubblico palpitante sotto di lui va in visibilio. Tanto attesa quanto apprezzata è stato il very dark show dei Moderat, trio posto sul palco davanti a una struttura di pannelli sovrapposti che ha dato vita a una scenografia tridimensionale di proiezioni. Hanno suonato i loro brani più famosi, con la voce live di Apparat a coinvolgere il pubblico. Quest’ultimo è poi salito da solo in chiusura della nottata con una esibizione che ha tenuto con sè tutti a danzare fino alle luci dell’inevitabile mattino.