di Stefano Ceccarelli
Raramente si ha la fortuna di poter ascoltare Meyerbeer, in teatro come in una sala da concerto. Ancor più raramente si ha la fortuna di ascoltarlo diretto da un genio assoluto, Sir Antonio Pappano, e cantato da un’eccellente interprete del calibro di Diana Damrau, fra i soprani più talentuosi e apprezzati del momento. La data unica proposta dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (si tratta di un concerto straordinario, fuori dalla stagione incipiente) e l’unicità del programma, lo rendono un evento speciale, realmente imperdibile. La scelta di Meyerbeer non è casuale: cadono, infatti, i centocinquanta anni dalla sua morte (1864). Inoltre, il concerto è stato trasmesso live streaming in mondovisione sul web, nella serie di appuntamenti firmati pappanoinweb.
ROMA, 6 ottobre 2014 – Sul palco della sala Santa Cecilia dell’Auditorium, dopo l’accordo degli strumenti, ecco presentarsi Bruno Cagli e Antonio Pappano; il presidente Cagli ricorda la scomparsa dello storico primo violino (per oltre venticinque anni) dell’Accademia, Angelo Stefanato; Antonio Pappano spende due parole sulla incresciosa situazione in cui sta affogando il Teatro dell’Opera di Roma: «speriamo che le due parti si mettano insieme per trovare soluzioni dignitose, favorevoli alla continuativa esistenza del Teatro dell’Opera di Roma». Un augurio che noi tutti condividiamo. Dopo un caloroso applauso, Pappano annuncia un raffreddore che affliggerebbe la diva, Diana Damrau; la suspense si fa sempre più eccitata. Poi ecco farsi la magia: Pappano attacca l’ouverture della Semiramide (1823) di Gioachino Rossini. Il concerto in onore di Giacomo Meyerbeer, infatti, prevede un florilegio di brani composti da autori a lui, grossomodo, contemporanei: e non poco sono legati i due, Rossini e Meyerbeer, visto che «il secondo trentennio dell’Ottocento si potrebbe definire l’epoca di Meyerbeer, così come il trentennio precedente era stato dominato dalla figura di Rossini» (G. Staffieri, dal programma di sala). L’esecuzione dell’ouverture è assolutamente stupefacente, direi perfetta: di una pulizia ritmica senza pari, in una partitura che è un rodeo di difficoltà. In nulla si perde l’ethos squisitamente rossiniano; i classicissimi crescendo ‘rossiniani’ sono di una precisione chirurgica e di una grazia sconfinata; viene l’andantino ristagnante sui legni e sugli ottoni, preludio all’allegro, una primavera sonora, con staccati di violini, eseguito da strumenti entranti sempre con precisione chirurgica; il tutto a sfociare nell’elaboratissimo crescendo che porta, dopo una modulazione e la ripresa dei temi precedenti, alla conclusione.
Un’ovazione invade il palco: il miglior brano orchestrale della serata. L’orchestra (la migliore d’Italia? Forse sì…) mostra subito di che pasta è fatta, sfoggiando un suono smagliante; il tutto sotto la mano miracolosa di Pappano. Ma, «alla cantata ancor manca la Diva» (per dirla con Tosca), che non si fa attendere. Diana Damrau entra − un abito lungo viola, con elementi di pizzo − e intona la complessa aria di Palmide dal II atto de Il crociato in Egitto (1824), «D’una madre disperata… Deh! Mira l’angelo… Con qual gioia le catene».
Del raffreddore, solo qualche ombratura nell’emissione, qua e là, e qualche lieve calo d’intensità: ma la sua voce cristallina, squillante, agile eppure piena, uniformemente argentea, capace di espandersi in un attimo, di inerpicarsi nelle più irte difficoltà, risulta intatta. Peraltro, quale aria peggiore per incominciare? Un groviglio di fioriture, di ogni tipo, accompagnano il canto scolpito à la mode pre-rossiniana; ma la Damrau non si esime dal regalarci il primo sovracuto interpolato della serata. Il pubblico è estasiato: cominciamo a illuminarci d’immenso. Poi un intermezzo sinfonico: l’ouverture daBenvenuto Cellini (1838) di Hector Berlioz; l’orchestra è, al solito, magnifica, ingentilendo le sonorità estroverse della parte centrale in larghetto − che ben si attagliano a descrivere il personaggio storico del Cellini, almeno da come lui si descrive nella sua autobiografia. Dopo un caloroso applauso, il momento più bello dell’intera serata: l’aria di Isabelle, «Robert, toi que j’aime», dal celebre Robert le Diable (1831). Stupisce tutti con la dolcezza con la quale dipinge le prime accorate sillabe, cullate dall’arpa, rivolte all’amore di Robert, salendo mestamente in un acuto di speranza sulla parola «grâce»: dopo aver disegnato una linea melodica invidiabile, termina negli accorati acuti che preludono la struggente chiusa. Un frenetico battimani la subissa; diversi le urlano «brava». Conclude il primo tempo del concerto l’ouverture da Das Liebesverbot di Richard Wagner, uno dei detrattori maggiori del Meyerbeer. Il brano è di una certa acerba ripetitività, dallo stile molto italico, ma è piacevole per la sua gaia brillantezza.
Il secondo tempo è aperto da un’altra aria al top della hit parade meyerbeeriana: «Ombre légère» da Dinorah (1859). Damrau si presenta in scena con un abito nero, con una fantasia di colori che le parte dal decolté e le arriva alla vita; raggiante, sfoggiando una deliziosa mimica, impersona la protagonista che, profondamente infatuata, invita la sua stessa ombra a non abbandonarla mai. Un pezzo di notevole difficoltà tecniche: scale, fioriture, trilli, picchiettati, tutti emergenti da un accattivante valzer che fa da melodia portante. Dopo aver inanellato una serie di trilletti e leziosità vocali squisite, termina con un sovracuto. Dopo il caloroso applauso, l’esotica marcia indiana de L’Africane (1865): Pappano imprime una direzione attentissima al peculiare colore, dispiegando una quantità incredibile di ottoni − una banda si va ad aggiungere all’orchestra, suonando dalle gradinate davanti al palco. Ecco, a seguire, il brano clou del secondo tempo, l’aria di Les Huguenots (con pertichini del coro e di tre soliste) di Marguerite de Valois, «O beau pays de la Touraine» (II atto). La dolce e riposante atmosfera di un ameno boudoir, dimentico delle lotte fratricide fra ugonotti e cattolici, suggerita da un preludio, apre alla dolce linea di canto dell’aria, resa melodiosamente soave, perfettamente cesellata dalla Damrau, che parla un eccellente francese. La accompagnano: Sara Fiorentini (Urbain), Antonella Capurso (Dama di corte) e Bruna Tredicine (Corifea). Tutte concorrono a rendere indimenticabile l’inciso di «Sombre chimère»; la sezione finale diviene momento di intenso godimento grazie alla performance perfetta dei salti e degli acuti e sovracuti, pieni e rotondi.
Infine, dopo una seconda ovazione, Pappano dirige l’ouverture da Dinorah − che aveva già diretto la scorsa stagione come apertura di un concerto che vedeva protagonista Lang Lang: una vera e propria narrazione nell’opera, ricca di spunti melodici trascinanti (si pensi al temporale e all’accenno dell’aria ivi cantata in precedenza), dov’è presente eccezionalmente anche il coro, che è stato magnifico per tutta la serata − gli applausi che gli tributiamo sono sempre insufficienti al talento con cui interpretano il loro repertorio. Come bis preparato, secondo l’uso moderno, la Damrau ribatte, a ragione, sulla Les Hugenots: la cavatina di Urbain dal I atto, «Nobles seigneurs, salut!», dove ha buon agio di tessere, su una cullante melodia − quasi una barcarola −, tutte le graziosità del caso, stagliando alla fine un’impressionante salita e un portamento sognante che la portano alla conclusione. Risuona l’ultima ovazione del pubblico, sentita, appassionata, e ci ricorda come «il potere universale della musica è prova evidente della necessità che noi sentiamo dell’armonia» (U. Foscolo, Principi di critica poetica).