di Francesco Bertini
Fra eccessi, arbitrii e splendori visivi, la cifra estetica di Hugo De Ana resta inconfondibile in questa ripresa del capolavoro di Lehár con un cast parzialmente rinnovato.
ROVIGO, 17 ottobre 2014 - Con l’agonica stagnazione economica vissuta dal nostro paese, la lirica è spesso a rischio fino all’ultimo momento. In una condizione simile si muove il Teatro Sociale di Rovigo che, fortunatamente, è in grado di inaugurare la propria 199a stagione, a un passo dal bicentenario. Quattro sono i titoli in cartellone, a cavallo tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015: La vedova allegra, Il trovatore, Don Pasquale e La cenerentola.
La prima produzione è una ripresa della celebre operetta di Franz Lehár, prodotta del circuito della Lirica veneta (Li.Ve.), che vede uniti nello sforzo i comuni di Padova, Bassano del Grappa e Rovigo.
Presentato per la prima volta nel 2009, da allora lo spettacolo è approdato in vari teatri italiani, per ultimo al Regio di Torino, lo scorso giugno. Il “padrone” dell’evento, coadiuvato per le coreografie dalla geniale Leda Lojodice, è l’argentino Hugo De Ana: regia, scene, costumi e luci sono un suo prodotto, dunque l’allestimento gli appartiene in ogni dettaglio. Rivisitata, riscritta, risistemata, l’operetta rivive tra paillettes, grisettes e scritte luminose. Su tutto, però, impera uno sconvolgente sentore di decadenza che rispecchia proprio l’Europa di inizio Novecento, la stessa impegnata ad ascoltare e vedere l’operetta di Lehár. Un’imponente costruzione mobile di vetro, ideata da De Ana per un passato allestimento del Faust di Gounod, occupa la scena, invasa in più momenti da gentlemen, ragazze facili, vecchi ricordi cinematografici (i tre fratelli Marx) e cascamorti. L’allestimento è un sunto delle caratteristiche peculiari di De Ana: conquista per l’opulenza, affascina per le idee ma lascia perplessi per alcuni rimaneggiamenti. Il gusto per il colore emerge appieno nei costumi sgargianti, nella scena del terzo atto invasa di luci, ombre, scritte appariscenti, filtrate dai vetri della strana costruzione che deforma e espande.
D’altro canto De Ana appesantisce, dilata, spesso eccessivamente, le parti recitate, sposta brani, per esigenze registiche, da un atto all’altro, inserisce citazioni da differenti lavori di Lehár (l’operetta Frühling per la precisione), riscrive il testo, con esiti alterni. Bisogna pur precisare che l’attuale ripresa è alleggerita, in seguito all’espunzione di alcune trovate.
La ridondanza scenica sovraccarica l’operetta, specie in considerazione dell’esigua superficie del palcoscenico del teatro rodigino. L’occhio stenta a cogliere tutti i dinamici particolari perdendo, oltretutto, in concentrazione. Tuttavia, nell’assieme, lo spettacolo sembra funzionare: il pubblico si diverte, chi più, chi meno.
Alcuni degli interpreti sono i medesimi dell’edizione 2009 - 2010. Tra le prime parti ritroviamo Alessandro Safina, Conte Danilo Danilowitch e Daniela Mazzucato, Valencienne. Il primo conferma una disinvoltura scenica, assecondata dalla figura slanciata e fascinosa, che riscatta, per quanto possibile, l’alterna e problematica prova vocale. La seconda, senza tema della pluridecennale carriera, affronta nuovamente uno dei ruoli che l’hanno resa celebre. Il soprano veneziano veste con eleganza tanto i panni della moglie dell’ambasciatore quanto quelli, più accattivanti, della grisette. Continua a ballare, recitare e cantare con l’intelligenza e la grazia dovute ad una brillante maturità artistica. Anche tra i cosiddetti secondi ruoli, definizione piuttosto disagevole in un’operetta che non risparmia nessuno, vi sono numerosi volti noti. Giuliano Scaranello, vivace e divertentissimo Capitano Kromow, Stefano Consolini, camaleontico Pritschitch, e, come new entry, il giovane Matteo Ferrara, allegro Bogdanowitsch, danno vita al trio dei fratelli Marx impegnati a farsi valere come mariti rispettabili. Dario Giorgelè, Visconte Cascadà, e Max René Cosotti, Marchese de St. Brioche, sono in scena l’uno la spalla dell’altro. Mentre Giorgelè maschera con la frizzantezza attoriale qualche cedimento vocale, Cosotti gioca a carte scoperte, in un repertorio conosciuto a menadito, risultando assai disinvolto nei panni del nobiluomo francese.
Dopo la tappa torinese, giunge anche a Rovigo Daniela Schillaci, Hanna Glawari. Il ruolo beneficia, specie scenicamente, della sua presenza. Il soprano si muove sul palcoscenico e si confronta con gli altri interpreti con encomiabile naturalezza. Per quanto attiene la prestazione vocale, si notano alcune problematicità nel registro acuto, non sempre timbrato, e intonazione alle volte imprecisa. L’amante Camille de Rossillon è lo spagnolo David Ferri Durà. Il tenore, soprattutto al confronto con l’esperta Mazzucato, risulta poco incisivo, a tratti in difficoltà per la scrittura che manifesta le limitazioni nel fraseggio, nell’omogeneità e nella proiezione in occasione dell’ascesa del pentagramma. Nei panni del Barone Zeta, il basso baritono Nicolò Ceriani si produce in una prova efficace per presenza scenica ma discontinua per resa canora. Accattivante e pimpante il Niegus di Ugo Maria Morosi, attore che vanta una lunga frequentazione del repertorio operettistico. A suo tempo De Ana volle tre dive del panorama lirico per interpretare i ruoli marginali di Sylviane, Olga Kromow e Praskowia. A Rovigo sono impegnate rispettivamente Annalisa Massarotto, Giovanna Donadini, divertente e spigliata come sempre, e Elisabetta Battaglia. La ripresa conserva i siparietti loro affidati: le tre si cimentano con citazioni operistiche (Faust, La Gioconda) e, nel terzo atto, con lo spumeggiante duetto, trasformato in terzetto, di Hanna e Danilo "Heia, Mädel, aufgeschaut" ("Haia, fanciulla, alza gli occhi", trasformato, nella versione De Ana, in "Ahi te, vieni un po' a guardar").
Il travolgente finale offre il riscatto muliebre, in un opera fortemente maschile, con il testo “È impossibile l’uomo cambiar” mentre sul pubblico cadono volantini inneggianti la rivoluzione.
La concertazione del serbo Srboljub Dinić si rivela funzionale e corretta ma carente di spirito e personalità. L’Orchestra di Padova e del Veneto offre una prestazione sorretta dalla recente maggiore dimestichezza con il repertorio lirico. Pur non essendo del tutto esente da problemi di coesione e intonazione, si difende il Coro Lirico Veneto istruito da Dino Zambello. Un encomio al lavoro dei figuranti e del corpo di ballo. Pubblico un po’ scarso ma plaudente.
foto Leonardo Battaglini