di Francesco Lora
Il capolavoro di Mozart ritorna allo Staatsoper di Vienna in uno spettacolo eccellente grazie alla concertazione di Eschenbach e alle interpreti delle due parti femminili, Maria Bengtsson e Chen Reiss. Gravi mende si trovano tuttavia nel testo, arbitrariamente manomesso dalla parte registica, e nell’inadeguatezza di Michael Schade nel ruolo protagonistico.
VIENNA, 14 ottobre 2014 – Idomeneo re di Creta, l’opera che Wolfgang Amadè Mozart reputava il proprio capolavoro teatrale, è presenza non abituale nei cartelloni lirici austro-tedeschi; e quando vi appare, vengono al pettine gli odierni disagi d’oltralpe nel comprendere e restituire un lavoro che afferisce al genere serio italiano, e che richiede perfetto possesso della lingua e della relativa retorica. Nel nuovo allestimento che lo Staatsoper ha varato il 5 ottobre scorso, con un primo ciclo di recite fino al 16, lo zolfo si mescola all’incenso senza che il pubblico locale sembri avvedersene: su tutto cala un uniforme successo di stima, a dimostrare una certa estraneità al titolo e al genere, nonché un discernimento ancora immaturo sugli ingredienti che tale partitura impone o aborre. Al vertice di tutta l’operazione si ascolta la concertazione di Christoph Eschenbach: l’orchestra dello Staatsoper, fittamente infiltrata di Wiener Philharmoniker, gli reca in dote il famoso suono massiccio come l’oro ed elegante come l’argento, tanto duttile e malleabile da lasciar tuttavia sempre trasparire la sfumatura flautata o da lasciar liberamente correre la voce del cantante attraverso di esso; Eschenbach vi sovrappone una maniacale cura del dettaglio, dai fraseggi ricercati con la puntigliosità del camerista, all’inattesa messa a punto delle appoggiature nei recitativi e alla giusta sostituzione del consueto clavicembalo col più filologico fortepiano. In questo orizzonte di entusiastico perfezionismo, il coro stesso si spoglia del suo abituale scialbore, e intona le sue numerose pagine con dovizia di colori e ritrovata energia. Fin qui, questa è la cronaca di uno spettacolo nato sotto il segno dell’eccellenza.
Prometterebbe bene, almeno sino alla fine dell’atto I, anche il neonato spettacolo con regìa di Kasper Holten, scene di Mia Stensgaard, costumi di Anja Vang Kragh, luci e video di Jesper Kongshaug, movimenti mimici di Signe Fabricius e drammaturgia di Adrian Mourby. L’affollata cooperativa predispone uno spazio scenico di spoglia eleganza plumbea, dove poco colore è dato da costumi occhieggianti al classicismo, e dove l’unità aristotelica d’azione è interpolata con la passione erotica di Idomeneo per Ilia. Alla stessa cooperativa, però, sembra che si debba ricondurre anche la messe di stravolgimenti testuali, che attestano a un sol tempo il sostanziale disinteresse per la fisionomia autentica dell’Idomeneo e l’ingiustificata ignoranza del codice drammaturgico del teatro d’opera. Spiace che Eschenbach assecondi la festa dell’arbitrio: intere scene e pezzi chiusi sono scambiati di luogo o affatto soppressi, perdendo il loro senso o moncando il corso drammatico; come nel caso del secondo assolo di Arbace, si ascoltano recitativi accompagnati che conducono al paradossale nulla di un’aria tagliata; l’atto III inizia direttamente con il vertiginoso quartetto «Andrò ramingo e solo», che in quella posizione manca però delle necessarie premesse e finisce per disorientare e annoiare anziché trascinare e turbare; dal materiale sostitutivo per la ripresa viennese 1786 è in compenso ripescata l’aria «Non temer, amato bene», che là era tuttavia destinata a un tenore insieme con tutta la parte di Idamante, mentre qui il personaggio spetta a un mezzosoprano come nella versione di Monaco di Baviera 1786. E questo è appena un hors-d’œuvre alla lunga serie di fantasie, fraintendimenti o errori veri e propri.
A rigirare il coltello nella piaga del fiasco provvede il tenore Michael Schade dalla parte eponima: egli pasticcia sguaiatamente lettura e dizione di una lingua che pratica a malapena, sostituisce disinvoltamente il parlato a una musica non ben memorizzata, banalizza la tragedia del padre-re carnefice del figlio-erede in gesti e grida da rozzo energumeno, si prodiga nel patetico spettacolo di eseguire l’aria di tempesta «Fuor del mar ho un mare in seno» nella versione più lunga e virtuosistica, ivi sposando al timbro frusto un’imbarazzante imperizia del canto d’agilità. Pallida correttezza viene a sua volta dall’Idamante del mezzosoprano Margarita Gritskova, tanto impegnata e tersa di modi quanto in odore di non comprendere il significato di ciò che va a cantare. E non si saprebbe cosa dire del povero Pavel Kolgatin, la cui parte di Arbace è quasi del tutto annichilita dai tagli. Ottime notizie giungono però dal versante delle due donne. Lungi dal propinare la consueta Elettra esagitata sino ai confini dell’espressionismo, Maria Bengtsson è un soprano lirico omogeneo e delicatamente smaltato lungo tutta la gamma, e un personaggio velato di inedita incredulità e timidezza, di certo più sofferente che furioso nell’essere principessa rifiutata dall’amato. Ella si pone così come credibile alternativa, distinta solo dai capricci del destino e non dall’estrazione psicologica o dalla passione covata in cuore, all’Ilia magistralmente interpretata da Chen Reiss: il suo canto, un filo più flebile e asciutto ma di purissima emissione, è animato da una sbalorditiva ricerca di sfumature espressive, ed è tanto più encomiabile per il suo conservare naturalezza anziché incorrere in calligrafismi. Si riparta da qui per una riflessione costruttiva sul canto di Wolfgang Amadè nella terra di Mozart.
foto Wiener Staatsoper / Michael Pöhn