Alla ricerca di zone d'ombra

di Claudio Vellutini

 

Rassicurante e sfarzosa, senza ambire a più profonde interpretazioni, la ripresa ad usum primaedonnae di Capriccio a Chicago con Renée Fleming protagonista. Convince la bacchetta di sir Andrew Davies, come la compagnia di canto, in cui si segnala la presenza di un'altra veterana, Anne Sophie van Otter nei panni di Clairon.

CHICAGO, Che Capriccio di Richard Strauss sia un’opera problematica è suggerito da una tradizione esecutiva altalenante, sostenuta principalmente da primedonne che vedono nel monologo finale della Contessa Madeleine un potente veicolo espressivo. Non ha aiutato la ricezione della partitura il contesto storico della sua prima esecuzione, avvenuta a Monaco di Baviera il 28 Ottobre 1942, durante uno dei periodi più neri della storia tedesca e a qualche mese dalla messa a punto della cosiddetta “soluzione finale” della questione ebraica nella Germania nazista. Il tono estetizzante che avvolge l’intera “conversazione in musica” stride aspramente con quanto sappiamo stesse avvenendo mentre l’opera andava in scena (e che Strauss solo in parte poteva ignorare). E’ possibile, oggi, restituire plausibilmente alla scena questa ultima fatica di Strauss omettendo tali dissonanze? E’ quanto sembra credere John Cox, regista della produzione originale e ora ripresa alla Lyric Opera di Chicago da Peter McClintock.

Entro la sfarzosa scena unica firmata da Mauro Pagano, l’esile vicenda di Capriccio (di fatto, un ozioso dibattito sulla supremazia tra poesia, musica e teatro) scorre prevedibilmente secondo i dettami del libretto, senza un’allusione, un filo di ambiguità o un suggerimento alle zone d’ombra che circondano la genesi della partitura. Se tutto ciò riconduce la vicenda entro una cornice visiva prevedibilmente confortevole, è pur vero che il pubblico contemporaneo viene privato della possibilità di beneficiare di un approccio critico all’opera—un approccio cioè che, portando in primo piano i molti punti interrogativi che ancora vi incombono, la liberino da quel torpore narcotico cui Capriccio sembra essere stato condannato dalle circostanze della sua creazione.

Il principale dilemma è rappresentato dal personaggio della Contessa Madeleine, al contempo musa ispiratrice e incarnazione stessa di un ideale operistico continuamente dibattuto, ma mai veramente definito. Nell’interpretazione di Renée Fleming, giustamente celebrata nei più prestigiosi teatri d’opera internazionali in virtù di doti vocali di prim’ordine, non c’è traccia di tale indeterminatezza. La cantante americana sembra usare il personaggio per celebrare se stessa e il suo status di primadonna glamour. E’ un’operazione di autopromozione discutibile (soprattutto laddove si rammenti il ruolo della Fleming quale Creative Consultant della Lyric Opera) ma anche legittimo dal momento che il soprano ha guadagnato le proprie stellette sul campo di battaglia nel corso di una illustre (ma non sempre incontestata) carriera ultraventennale. Tuttavia, è un’operazione che non agevola le sorti di Capriccio, ironicamente sempre più intrappolata in quella funzione di pretesto esibizionistico che, nel loro libretto, Strauss e Krauss vorrebbero attribuita alla tradizione operistica italiana. Nel corso di questa recita, inoltre, la Fleming sembrava voler risparmiare le energie per gran parte della serata, quasi il suo intento fosse quello di emergere solo nel monologo conclusivo.

Accanto al soprano americano, la Lyric Opera ha proposto un’altra veterana delle scene internazionali, Anne Sophie von Otter nel ruolo della tragédienne Clairon. Non possiamo negare di aver sentito la von Otter in migliori condizioni vocali, al netto anche di un ruolo che, in molti passaggi, risulta troppo basso per la cantante svedese. Il mezzosoprano, comunque, rimane un esemplare modello di intelligenza interpretativa, grazie ad una sapienza del porgere sempre fondata sull’espressività della parola cantata. Il basso Peter Rose divertiva nei panni dell’impresario La Roche, panni che però risultavano un po’ larghi per il suo organo vocale, talora messo alle corde. Azzeccata, invece, la scelta dei due pretendenti al cuore della Contessa Madeleine, il baritono Audun Iversen (Olivier) e soprattutto l’eccellente tenore William Burden (Flamand). Più sorvegliato del solito ci è parso Bo Skovhus (Conte), che ha così avuto modo di mettere in risalto i pregi di uno strumento privilegiato.

Molto più che nel Don Giovanni di inizio stagione, Sir Andrew Davis ha dato lustro all’orchestra del teatro. La partitura straussiana sembra infatti molto più congeniale alla sensibilità interpretativa e al temperamento del direttore inglese di quanto non lo fosse quella di Mozart. Ne risulta una resa strumentale equilibrata, ricca ma al contempo trasparente, in cui le esplosioni sonore non compaiono mai a discapito né dell’intimità cameristica né delle preziosità timbriche dell’orchestrazione, ma anzi ne costituiscono i momenti culminanti.

Una menzione di merito all’affiatato gruppo di comprimari, gran parte dei quali dimostrano l’eccellenza del lavoro svolto dal Ryan Opera Center, il programma di formazione per cantanti emergenti della Lyric Opera: Juan José de León (Tenore italiano), Emily Birsan (Soprano italiano), David Govertsen (Maggiordomo), Keith Jameson (Monsieur Taupe), e il gruppo dei servitori composto da Matthew DiBattista, Jesse Donner, Anthony Clark Evans, John Irvin, Jonathan Johnson, Will Liverman, Richard Ollarsaba e Bradley Smoak.

foto Todd Rosenberg