di Roberta Pedrotti
G. Donizetti
Don Pasquale (ricostruzione della versione interpretata da Pauline Viardot)
Regazzo, Carnevale, D'Aguanno, Nani
direttore Giovanni Battista Rigon
regia Francesco Bellotto
Vicenza, Teatro Olimpico, giugno 2010
DVD Bongiovanni AB 20026, 2014
In tempi in cui vengono propinate fantomatiche e fantasiose “versioni Malibran” (per fare un esempio) di questo o quel titolo, conforta l'onestà con cui il Teatro Olimpico di Vicenza annuncia la sua “ricostruzione della versione per mezzosoprano” di Don Pasquale, perché sia chiaro che non esiste una documentazione di ciò che fu realmente eseguito, senza interventi di Donizetti, dalle primedonne contralto che affrontarono la parte di Norina. La copertina recita in modo più vago “prima ripresa modera della versione con mezzosoprano”, non scorretto – anche se di ripresa tout court non si può parlare – e presumibilmente di maggior impatto commerciale.
In questo caso si trattava di rendere omaggio al centenario della scomparsa della grande Pauline Viardot, la più giovane dei fratelli Garcia, artista e intellettuale fra i massimi del suo tempo.
Pauline fu Norina a San Pietroburgo nel 1845 e a Berlino due anni dopo. Sicuramente sarà intervenuta, come prassi d'epoca corroborata dal suo talento e dalle sue competenze di compositrice, con variazioni e aggiustamenti per adattare la parte ai propri mezzi, interpolando anche per il finale un'aria da baule, un pezzo di Michael Balfe (detto dalla sorella Maria Malibran “il Rossini inglese”) individuato nel valzer “Il piacer che inonda” da The maid of Artois, creato proprio dalla maggiore delle Garcia, e ripreso poi da soprani puri. La questione, in realtà, dell'attribuzione ai diversi registri di personaggi e interpreti del Primo Ottocento resta spinosa, non semplificabile secondo le categorie odierne, come dimostra anche la testimonianza diretta di Marietta Alboni, contralto che pure si cimentò con Norina e che ebbe a scrivere in una lettera ad Albert Lavignac del 1892: “Quando dopo diversi anni di studio la mia voce giunse al suo completo sviluppo, ho potuto facilmente fare una scala dal Sol basso alla nota del Do acuto di soprano; talvolta facendo esercizi andavo dal Fa basso fino a Re e al Mi bemolle acuto; ma questo facevo per mio piacere. In pubblico non mi sono mai permessa che il Sol basso e il Do acuto.
Con i miei due registri ho potuto cantare da contralto e da soprano […] Ho cantato La sonnambula, Norma, Don Pasquale, Anna Bolena, La fille du régiment ecc ecc.”
Considerato che, per esempio, la cavatina di Norina tocca il Re bemolle ma è per lo più limitata al Do è ragionevole pensare che la Alboni avrebbe potuto affrontarla tranquillamente anche senza trasposizioni, inserendo solo delle variazioni che mettessero ben in luce le sue migliori qualità evitando acuti scomodi ed è legittimo supporre lo stesso per la Viardot, la quale soleva cantare in diversi registri con personalissimi accomodi che non è possibile schematizzare come trasposizioni mezzosopranili o contraltili, quanto come espressioni della propria unicità d'artista.
Giusto, dunque non millantare una “versione Viardot” e dichiarare una ricostruzione ispirata alla sua interpretazione, un omaggio alla primadonna che, più che aprirci semplicemente la possibilità di una Norina mezzosopranile abbassata, dovrebbe ricordarci come soprattutto per le voci femminili nel Belcanto è data una libertà che va ben oltre la categorizzazione dei registri e ha come confine solo il buon gusto e la cognizione dello stile, come movente e strumento l'arte e la personalità dei musicisti.
Qui sta la forza e, in un certo senso, la fragilità dell'operazione, che si iscrive in un encomiabile progetto di riscoperta di versioni alternative, d'autore o meno, testimoni di un'epoca e di un'idea di filologia che restituisce la proteiforme mobilità del teatro in musica.
È magnifico, difatti, da un lato ricordare nel concreto che Norina può essere qualcosa di diverso dal soprano leggero cui siamo abituati, che una grande artista sostituì il rondò con un'aria da baule, magari riscoprire sfumature piccanti di primadonna à la Marcolini (la prima Isabella nell'Italiana in Algeri); dall'altro è ovvio che un'operazione del genere dovrebbe vivere nella voce e nella presenza di un'autentica primadonna. Sarebbe auspicabile che, sulla scorta di questa pionieristica proposta vicentina una cantante come Joyce Didonato avvicinasse Norina, o che qualche direttore artistico coraggioso prendesse esempio e coinvolgesse qualche valente giovane mezzosoprano o contralto in una produzione di Don Pasquale, senza timore di categorie vocali, pensando più all'arte e alla musicalità.
Ciò senza nulla togliere alla prova di Federica Carnevale, attenta e spigliata quanto basta ma certo non in possesso di quelle virtù trascendentali e di quel carisma che giustifichino, fuor dall'interesse documentario e specialistico, una versione che ha il suo ragion d'essere nella personalità della primadonna. Sicuramente, per esempio, un gioco coloristico più eloquente avrebbe reso meglio giustizia alla particolarità della ricostruzione, ma ad ogni modo la Carnevale e il concertatore Giovan Battista Rigon dimostrano facilmente che anche senza sofracuti e ricami sui vertici del pentagramma Norina non ha nulla da perdere e Don Pasquale non perde il suo status di capolavoro e il rispetto dello stile donizettiano. Dimostrano che il belcanto consiste anche in una saggia libertà e che molti dogmi sulla classificazione di ruoli e registri andrebbero rivisti e sfumati.
Al di là del lavoro dedicato all'adattamento per una primadonna mezzosoprano e al recupero del valzer di Balfe in ossequio alla Viardot, Rigon si propone anche il recupero dell'orchestrazione secondo l'autografo, lavora sul testo con cura e onestà e così dirige, fluido e brillante, e se a volte certi accelerandi nelle cabalette risultano un tantino repentini l'insieme non manca di convincere e farsi apprezzare pur senza contare su complessi che siano più che diligenti.
Lorenzo Regazzo ci offre il piacere di ascoltare il ruolo eponimo nel timbro e nel piglio dell'eroe serio: quando sgrana lo sdegno esasperato di “Son tradito, beffeggiato” con l'autorità di un Maometto II non v'è dubbio che il personaggio ne guadagni non poco, tanto più che i sillabati son scanditi a dovere e là dove il personaggio risulta serio non è mai serioso, dosando con intelligenza anche ironia e leggerezza. Emanuele D'Aguanno ha figura e vocalità ideali per questo tipo di personaggi e il suo Ernesto funziona, anche se l'acuto potrebbe essere più libero correggendo quella tendenza a stringere l'emissione intorno al passaggio superiore. Gabriele Nani è un vivace, efficace Malatesta che s'inserisce benissimo nello spettacolo.
Francesco Bellotto, regista, sfrutta la cornice impagabile, ma anche impegnativa, del Teatro Olimpico di Vicenza ambientando l'azione in un museo/laboratorio di restauro diretto da Don Pasquale, severo cultore degli stili classici costretto a vedersela con un nipote modaiolo e avanguardista e una (finta) sposina appassionata d'arte contemporanea e organizzatrice di vernissage glamour. Un'idea plausibile, con alcuni tratti decisamente efficaci, ma con alcune cadute di gusto, come lo scivolare di Don Pasquale, inizialmente un signore maturo ma in forma, in mille acciacchi senili (risolti poi liquidando “Sofronia”) che lo vedono insistentemente alle prese anche con un cuscino a ciambella per emorroidi. Al di là dell'opportunità dell'allusione, non si tratterebbe nemmeno di un male tipico dell'età avanzata, per il quale – a parità d'eleganza – sarebbe stato per lo meno più puntuale (ma ugualmente evitabile) un riferimento all'incontinenza. Certo, soprattutto per un'operazione così sofisticata, omaggio a un'artista quale la Viardot, un senso un po' meno grossolano della commedia non avrebbe guastato.
Fra alti e bassi questo DVD fornisce un nuovo documento della benemerita e curiosa attività dell'Olimpico di Vicenza, volta a riscoprire sempre versioni e rielaborazioni d'epoca, d'autore o meno, documentate o ricostruite, dei titoli più noti. Speriamo possano andare avanti così per molti anni ed essere d'esempio ai teatri, perché anche sul grande repertorio s'impari a variare “con garbo e a tempo”.