Francesco Bertini
TRIESTE, 2 novembre 2014 - Negli anni trascorsi a Salisburgo, al servizio dell’arcivescovo Colloredo, Mozart ebbe modo di rafforzare alquanto le proprie conoscenze nel milieu musicale, dando fondo alla propria innata versatilità compositiva. La committenza per Il re pastore pervenne a Mozart, con buona probabilità, prima della partenza per Monaco, città in cui si trattenne dal dicembre del 1774 al marzo del 1775. Colloredo desiderava omaggiare un ospite illustre, di passaggio nella sua corte: nel viaggio di ritorno da Parigi, dove aveva fatto visita alla sorella Maria Antonietta, da poco ascesa al trono, sostò a Salisburgo Maximilian Franz, ultimo figlio dell’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo e dell’imperatore Francesco di Lorena. Era ben nota la sua passione musicale che l’arcivescovo decise di assecondare con l’omaggio di alcuni lavori inediti, eseguiti nel Teatro del Palazzo Arcivescovile. Il 22 aprile debuttava Gli orti esperidi del Kappelmeister Domenico Fischietti e la sera seguente si ascoltava Il re pastore del giovane Konzertmeister. Entrambe le fatiche erano ascrivibili al genere della serenata, particolarmente in voga per le celebrazioni nel regno degli Asburgo, ed erano basate su libretti del poeta cesareo Pietro Metastasio. Quest’ultimo confezionò Il re pastore nel 1751 per il maestro di cappella Giuseppe Bonno. Lo stesso soggetto venne utilizzato innumerevoli volte, fino al rimaneggiamento di Mozart che espunse alcuni numeri snellendo testo e musica. Le esigenze imposte dalla situazione celebrativa giustificarono tanto la ripartizione in due atti, anziché i tre originari, quanto la riscrittura di alcuni passaggi del libretto. L’unico interprete certo è il castrato Tommaso Consoli, cui fu affidata la parte di Aminta. Gli altri artisti risultano tuttora oscuri. Tra le maglie dell’allegoria, narrata dal libretto, si cela l’esaltazione, cara agli illuministi, della virtù premiata dai saggi sovrani, nel nostro caso Alessandro Magno.
Il primo allestimento di quest’opera al Teatro Verdi di Trieste è affidato a Elisabetta Brusa, regia, e Pier Paolo Bisleri, scene e costumi. La messinscena ambisce a inserire le caratteristiche agresti nel contesto cortigiano rappresentato, senza rischio di equivoci, dal fondale che ricostruisce dettagliatamente il palladiano teatro Olimpico di Vicenza, con tanto di fughe prospettiche. Il resto della scena è ingombro di pochi elementi tra i quali un arcolaio, della lana, presente in quantità sul palcoscenico, e alcune pecore, ricreate con calchi. Un’incombente cornice taglia in due lo spazio dividendo il contesto rurale da quello politico. I costumi, di foggia settecentesca, hanno tinte accese e pittoresche. Il lavoro registico si inserisce con alterna validità. In alcuni casi la recitazione è asciutta e convincente, in altri, ben più frequenti, appare affidata alla spontaneità degli artisti con esiti che vanno dall’efficace al poco credibile.
Tra i solisti spicca Alida Berti, Aminta. Il soprano toscano veste i panni protagonistici con naturalezza. Il suo strumento è naturalmente predisposto per il lessico mozartiano grazie al quale risalta il timbro ambrato e la duttilità che si rivela in maniera convincente nel celebre rondò "L’amerò, sarò costante". Se la cava anche Eva Mei, Elisa, la quale ha fatto di Mozart uno dei suoi cavalli di battaglia. La cantante è disinvolta in scena, mai tronfia o artefatta, e dotata di voce cristallina, non sempre corretta ma apprezzabile per fraseggio.
Qualche gradino più in basso i colleghi, a cominciare dai due tenori Tony Bardon, nella difficile parte di Alessandro, e Alessandro Codeluppi, Agenore. Ambedue sono assai impacciati nell’affrontare gli abbellimenti presenti nella scrittura. Il primo risulta disomogeneo, fatto invero dannoso nell’affrontare i dettami del salisburghese, alle volte stonato e incapace di dare senso compiuto alla parola. Anche la presenza scenica è piuttosto goffa, malcelata dalla fastosità delle vesti. Nonostante paia più attento, anche il secondo non è indenne da cadute stilistiche. La pronuncia leziosa poco giova alla valorizzazione del personaggio che tuttavia si coglie grazie alla recitazione.
La figlia del tiranno, la giovane Tamiri, è interpretata da Paola Antonucci. Il soprano abruzzese scivola sovente per quanto attiene l’intonazione e mostra una certa asperità nelle note estreme.
Sul podio Felix Krieger dirige con disinvoltura ma scarsità di colori. L’intesa con gli artisti assicura valida coesione tra buca e palcoscenico. L’Orchestra del Teatro Lirico “Giuseppe Verdi” di Trieste esegue convintamente la serenata, pur denotando alcune imprecisioni specie d’intonazione.
Caloroso il pubblico, al termine della recita, all’indirizzo di tutti i solisti e in particolare della Mei e della Berti. Lodevole l’iniziativa della fondazione friulana di proporre un titolo ingiustamente passato sotto silenzio.
foto F. Parenzan