di Francesco Bertini
Dopo ventotto anni torna a Bergamo l'opera dedicata al poeta della Gerusalemme liberata. Appuntamento del massimo interesse musicale coronato da un caloroso successo, non ha, tuttavia, sempre convinto appieno nella realizzazione.
BERGAMO, 7 novembre 2014 - La nona edizione del Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti si è aperta in settembre con Lucia di Lammermoor (leggi la recensione) per poi proseguire con Betly (leggi la recensione) e Tosca. Come ogni anno, gli innumerevoli eventi collaterali offrono al pubblico un intrattenimento panoramico che spazia dai concerti, agli incontri, ai convegni, alle guide all’ascolto, alle proiezioni. Questo fermento culturale si affianca al lavoro musicologico, portato avanti dalla fondazione con dedizione e costanza, dedicato alla ricerca filologica sul materiale del compositore bergamasco.
A chiudere la stagione lirica, prima del balletto, è stato posto Torquato Tasso, titolo di massimo interesse nell’eterogenea programmazione. Assente dal teatro di Città Bassa da quasi trent’anni (l’ultima rappresentazione risale al 1986), l’opera è presentata nell’edizione curata da Alberto Sonzogni che ha esaminato in particolare il manoscritto conservato alla Biblioteca Reale del Conservatorio di Bruxelles. Il 1833 fu un anno particolarmente prolifico per Donizetti che riscosse svariati successi con una serie di titoli significativi per la sua carriera. Nei primi giorni di gennaio, il Teatro Valle a Roma aveva ospitato la prima di Il furioso all’isola di San Domingo, concepito secondo una struttura semiseria. Il pubblico apprezzava la commistione di elementi comici in vicende più o meno tragiche: la rottura nella tensione narrativa, provocata da personaggi “buffi”, dava maggiore respiro all’intera partitura (idea oggi non condivisa). Erede diretto del Furioso è il Tasso. La comunanza non è dovuta solo al genere ma anche, e soprattutto, alla presenza dirompente della corda baritonale. Non potendo affidare la parte principale a un tenore, per la mancanza di un valido artista, Donizetti si risolse di comporre il ruolo protagonistico per Giorgio Ronconi, già interprete acclamato del ruolo di Cardenio nel Furioso. Nella gestazione del melodramma, basato sulla figura di uno dei letterati più importanti della storia patria, il musicista si impegnò in letture approfondite di disparati testi. Da Goethe a Rosini, Goldoni, Byron, Duval, Serassi e Zuccala, la frenetica documentazione ambiva a tratteggiare compiutamente il carattere del celebre autore, pure legato a Bergamo. Proprio la città, che al musicista diede i natali, figura, assieme a Sorrento e Roma, tra i dedicatari della partitura. L’abile librettista Jacopo Ferretti, già collaboratore di Donizetti, struttura il libretto con inserti tratti da componimenti dello stesso Tasso, evidenziandone così l’efficacia nel contesto drammaturgico teatrale.
Come si può arguire, la parte principale richiede delle doti non comuni, corroborate da una maturità espressiva che probabilmente Ronconi, seppur giovane, era in grado di convogliare nell’interpretazione musicale. Leo An, il Torquato Tasso bergamasco, è un baritono dalle indubbie potenzialità ma dagli altrettanto evidenti limiti. Il cantante coreano ottiene qualche emissione efficace al cospetto delle dinamiche forti, tuttavia, appena la scrittura richiede alcune sfumature, la voce risulta fioca e vuota. Il fraseggio risente purtroppo della dizione problematica che inficia la resa del terzo atto, interamente affidato al protagonista. È lodevole il tentativo di dare rotondità al Tasso, tanto nelle scene d’assieme quanto nei passaggi contemplativi e nella sconvolgente follia finale.
I due antagonisti, Roberto Geraldini e Don Gherardo, giocano d’astuzia per distruggere la fama e l’integrità del poeta. Il primo, in particolare, sfodera un carattere arrivista, degno dei peggiori villain della storia lirica. La parte è affidata al tenore Giorgio Misseri il quale, fin dal principio, manifesta nasalità nell’emissione, qualche spoggiatura e intonazione vacillante. Anche la presenza scenica risulta un po’ impacciata e il tentativo di sottolineare la malvagità riesce solo parzialmente. A Marzio Giossi compete il secondo ruolo citato. Il baritono affronta la scrittura più controversa dell’opera: ai modi farseschi si abbinano l’eloquio buffo e il vezzo degli scioglilingua, caratteristiche discordanti con l’assetto drammatico della vicenda. Agli sforzi dell’artista per non sembrare attore artefatto, problema quasi annullato dal dinamismo e dall’abile scioltezza, si accosta una voce spesso ingolata, a tutto scapito del fraseggio e del timbro interessante.
La protagonista femminile, Eleonora, sorella di Alfonso d’Este, è affidata al soprano Gilda Fiume. Lo strumento, contenuto per volume, ha dalla sua una levità consona al ruolo della sventurata nobildonna. Purtroppo, l’impervia tessitura mette a nudo inciampi nell’intonazione e asperità in zona acuta, insufficienze attenuate da una credibile prestazione scenica. Sicuro ma perfettibile l’Alfonso II di Gabriele Sagona com’anche il sibillino Ambrogio di Alessandro Viola. Annunziata Vestri, già udita a Bergamo in occasione di Belisario, conferma, nei panni di Eleonora, Contessa di Scandiano, i limiti vocali dovuti ad incertezze tecniche non emendate.
Sebastiano Rolli, pure presente nella Città dei Mille per alcune produzioni, sceglie dinamiche energiche e agogiche concitate. La sua lettura corre spesso il rischio di risultare scarsamente personale, a tratti disattenta all’unità con il palcoscenico.
L’Orchestra del Bergamo Musica Festival manca d’omogeneità, pur offrendo una prova discreta. Il Coro del Festival, istruito da Fabio Tartari, nonostante alcune imprecisioni negli attacchi, pare più attento rispetto a prestazioni del recente passato.
Il pregio della regia di Federico Bertolani è di non essere invadente. Tanto è sobria, a volte impalpabile, la recitazione quanto è spoglia la scena ideata da Angelo Sala. Le tinte nere e bianche dei costumi di Alfredo Corno e le luci di Claudio Schmid affrescano il palcoscenico bergamasco. Il colorismo di Bertolani si estrinseca non solo nella pioggia di fogli, sui quali sono impressi i testi di Tasso, ma anche nelle sbarre rosse del carcere e nell’incombente “piazza metafisica”: la vivacità visiva di questi elementi rende più fluido un spettacolo altrimenti poco definito nei caratteri.
Il pieno successo finale, con calorose accoglienze per il concertatore, sigla questa nuova, importante, produzione della Fondazione Donizetti.