di Francesco Lora
La ripresa dello spettacolo di Tiezzi vede a confronto due letture musicali tra loro indipendenti, l’una con Ranzani e Nucci, l’altra con Barenboim e Domingo. Il più genuino approccio dei primi vince sull’appeal massmediatico dei secondi.
MILANO, 9 e 16 novembre 2014 – Non solo le due canoniche compagnie di canto, ma due spettacoli che, pur condividendo lo stesso allestimento scenico, hanno ciascuno un ciclo autonomo di recite, un proprio direttore e una lettura musicale indipendente. L’esperimento, singolare nel contesto italiano, ha avuto luogo al Teatro alla Scala con una doppia produzione del Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi: quattro recite dal 31 ottobre al 9 novembre, dirette da Stefano Ranzani e capitanate da Leo Nucci, e cinque dal 6 al 19 novembre, dirette da Daniel Barenboim e capitanate da Plácido Domingo. L’interesse di seguire entrambe le letture consiste anche nella differente distribuzione di priorità poetiche e punti di forza. Curiosamente, l’allestimento scenico in comune rimane invece uguale a sé stesso più di quanto ci si aspetterebbe. Detto fuori dai denti, ciò avviene anche per la sua intrinseca pochezza. La regìa di Federico Tiezzi procede pigramente secondo didascalia, incappando in veri e propri errori teatrali quando se ne discosti: si veda la sortita di Amelia Grimaldi nell’atto I, dove ella è circondata da premurose confidenti e vede così liquidata la sua l’introversa solitudine; o si veda il proclama del Capitano dei Balestrieri nell’atto III, emanato dal palco reale con trombettista al fianco e così sottratto alla sua scenograficità da fondale per essere rivolto a un pubblico di spalle. Del pari, le scene di Pier Paolo Bisleri combinano astrattamente elementi concreti (soprattutto il trono dogale e gli stalli senatorii) senza per questo saper conciliare realtà fisica e contesto psicologico. E i costumi di Giovanna Buzzi – tutti storici, fatta salva l’ultima apparizione del coro in abiti tardottocenteschi – sono funzionali a un’idea registica debole senza poter aspirare oltre. Si tratta insomma di uno di quegli allestimenti, irrisolti nelle idee ed essenziali nelle strutture, adatti agli strabocchevoli cartelloni di area germanica – lo spettacolo è, non a caso, coprodotto con lo Staatsoper Unter den Linden di Berlino – ma non confacenti alla tradizione di una scena italiana insigne.
Una stupenda professione di italianità in questo primo teatro del mondo viene invece dalla bacchetta di Ranzani. Il suo è assai più che solido mestiere: egli respira col cantante a ogni passo e insieme narra con amorevolezza di legato, ricerca di tinte e messa a punto di suggestioni descrittive: si ascolta il mare che nel gesto degli archi brilla lievissimo sull’alba o sotto la luna, e si ascolta l’onda che si frange scherzosa nel roteante ciangottare degli strumentini. Non è una lettura cervellotica, ma una lettura umile, attenta, equilibrata, tesa a servire ciò che l’autore esplicita: essa fa così riscoprire un’ennesima volta quale capolavoro inesauribile sia il Simon Boccanegra. Una pari genuinità è posta sul tappeto da Nucci nella parte eponima. Le risorse canore, retoriche e gestuali che egli presta a Simone, una parte da lui poco frequentata, non sono poi tanto diverse da quelle che egli presta a Macbeth, a Rigoletto e al Conte di Luna; il vocabolario espressivo è piuttosto ridotto ed è il medesimo per tutti, sicché a ben vedere l’introspezione rimane di maniera. Eppure l’inconfondibilità di timbro ed emissione, nonché l’appassionata immediatezza del suo recitare, hanno più che mai oggi del prodigioso: commuovono e insegnano, nel solco di una tradizione interpretativa sempre più povera di eroi. Al fianco di Nucci, Carmen Giannattasio è un’Amelia di rango e un soprano in ammirevole ascesa: la generosa risonanza, il florido smalto vocale e la prontezza a sfumare dimostrano tutt’insieme la salute dei mezzi, la tecnica solida e l’attenzione interpretativa. Gli spiacevoli segni del declino sono invece manifesti in Ramón Vargas, un Gabriele Adorno dal timbro vieppiù scabro, dal volume vieppiù ridotto e dall’emissione vieppiù faticosa: un grande tenore cui una parte dell’ultimo Verdi risulta ormai di taglia troppo larga. E non all’altezza della Scala è il basso Alexander Tsymbalyuk: la genericità dell’attore lambisce appena l’orgoglio statuario di Jacopo Fiesco, mentre le risorse vocali si limitano ai mezzi naturali, ossia a un registro acuto ingolato, a un registro centrale flebile e a un registro grave senza corpo. Senza mende il Paolo di Vitaliy Bilyy, il Pietro di Ernesto Panariello, il Capitano di Luigi Albani e l’Ancella di Barbara Lavarian. Per sontuosità di impasto ed energia gestuale, si riconferma scontatamente favoloso il coro del teatro meneghino, che soprattutto in Verdi non ammette confronti.
All’apparenza più dispendioso, internazionale e massmediatico, il secondo Simon Boccanegra non è in fin dei conti preferibile al primo. Si ascolta Barenboim con devota concentrazione, eppure si rimpiange quanto ascoltato sotto Ranzani. I cantanti paiono abbandonati a sé stessi, ché il direttore è tutto intento all’orchestra. Da quest’ultima egli cava suono ruvido e plumbeo, anche quando l’azione presupponga un porgere gentile: il moto dell’onda descritto nelle note suona ora tanto meccanico da evocare gli scatti di una macchina d’industria; e gli schianti tolti dal golfo mistico colpiscono bruscamente l’orecchio senza per questo assumere un preciso significato presso mente e cuore: una muscolarità esteriore e un’inerzia espressiva che va a toccare persino il vertiginoso duetto d’agnizione tra padre e figlia. Il discorso prosegue su questa strada nel dire del Simone di Domingo: all’opposto di Nucci, egli ricerca a ogni istante una tinta peculiare, ma non per questo attinge esiti più alti. Il porgere troppo realistico e animoso tende anzi a uscire dal canto e dalla frase scritta, o va a tamponare i frequenti vuoti di memoria, malcelando l’affanno di un tenore carismatico e ora anziano volonterosamente convertitosi in baritono: nella tessitura mediana, Domingo trova una maggior sicurezza personale, ma non l’ampia cavata del cantabile (fratturata nel martellare le singole note) né la nobiltà di un’emissione a tutta maschera (in favore di un porgere stentato e chioccio). Anche l’Amelia di Tatiana Serjan è lontana dall’ideale, e non già per insufficienza della cantante quanto per scarsa affinità con la parte sostenuta: soprano drammatico avvezzo al Verdi degli “anni di galera”, e dunque ai bruschi scarti di registro e al declamare a nervi tesi tra reminiscenze ancora belcantistiche, ella si trova spaesata al cospetto di una figura più lirica e cantabile. Fabio Sartori è invece sempre a pieno agio nella parte di Gabriele: all’appello manca lo squillo, ma l’estensione è facile, il timbro personale, il volume considerevole, il personaggio retto con onestà e passione. Come Fiesco, Orlin Anastassov eredita le lacune di Tsymbalyuk. Quanto al migliore in campo, esso è forse il Paolo di Artur Rucinski, baritono già uso a prime parti verdiane e qui affidatario di una parte secondaria: attento cesellatore di sottili perfidie, finisce col rivelare la non altrettanta abilità dei colleghi, a partire dal famoso nuovo compagno di corda.
foto Brescia/Amisano