di Roberta Pedrotti
Grande successo per il concerto di beneficenza, al Paladozza di Bologna, di Stefano Bollani e Hamilton De Holanda, con tutto il gusto e la fantasia del far musica insieme in piena libertà.
BOLOGNA, 16 novembre 2014 - “Tutti quanti voglion fare jazz”, cantavano gli amici di Romeo ravvivando un po' l'esistenza impettita – e noiosissima – di Duchessa e dei suoi tre piccoli aristogatti, nel film Disney del 1970. E a Bologna, di certo, è un po' così: il jazz fa parte dell'identità della città ed è quasi impossibile trascorrere un po' di tempo all'ombra delle Due Torri senza incrociare almeno un concerto in un locale di via Mascarella, qualche volenteroso gruppo di giovani – sovente anche degni d'ascolto – per le vie del centro, qualche appuntamento più o meno ufficiale, più o meno prestigioso a punteggiare il fittissimo calendario cittadino. Per chi, poi, non conosce o non frequenta Bologna, basterebbe sapere che il favoloso mondo di band, locali e improvvisazioni cantato con nostalgia da Pupi Avati non è un'invenzione cinematografica.
In questo clima quantomai fertile si iscrive l'evento speciale che ogni anno il Bologna Festival dedica alla raccolta fondi per Ant, l'associazione bolognese ormai nota e attiva in tutta Italia (ma sul sito web il materiale è disponibile perfino in lingua swahili) per l'assistenza gratuita ai malati di cancro. Un nobile connubio di musica e beneficenza che ha visto a chiudere, per ora, una sfilata di nomi prestigiosi nel 2013 Uto Ughi e, oggi, Stefano Bollani e Hamilton De Holanda.
Al centro del Paladozza è montato un palco, spartano, con la massima concessione scenografica di gradazioni di colore, dal carta da zucchero al ruggine, sul fondale. Il pubblico è numeroso, eterogeneo, festosissimo. E a ragione, per una serata assolutamente all'altezza della fama degli artisti, che per due ore quasi senza soluzione di continuità – giusto qualche battuta qua e là a presentare i brani e rafforzare l'empatia con la sala – condividono musica e divertimento.
L'intrattenimento senza sostanza non è che cabaret, anche di qualità, mentre la componente ludica del jazz, il gioco di sguardi, l'ironia dello scambio e del palleggio sonoro, quell'usare poco o nulla i pedali del pianoforte – ché non abbiamo un Rachmaninov a richiederlo – ma alzarsi come un ciclista in salita e ballare quasi sullo sgabello non avrebbero ragion d'essere se non fossero pare ed espressione di una profonda compenetrazione e comunione di linguaggio musicale, di una cultura ampia che si esplicita nella varietà inesauribile del materiale tematico, d'origine eterogenea ma trattato senza barriere con eguale entusiasmo e fantasia.
Vediamo Bollani chiudere un assolo passando dalla percussione manuale delle corde a quella della meccanica stessa del pianoforte, da lì alla carta di alcuni spartiti: un plico, il singolo foglio, l'aria muta, infine. Un qualunque aspirante compositore da Biennale (non i veri grandi, che ci sono eccome) avrebbe ammantato il gesto di un'aureola vaga di fumosi concetti; qui se ne sorride senza troppi sofismi, ma per chi sappia cogliere non manca la suggestione dell'omaggio alla vera avanguardia che ha elaborato il suono e le potenzialità dello strumento al di là della tecnica tradizionale e dell'ironia sull'avanguardia di parole e cartapesta che lucida una superficie stravagante a custodire il vuoto. E chi non coglie, comunque si gode la scena, il trapassare della melodia e dell'armonia nell'essenza del solo ritmo, il prosciugarsi e il dissolversi del timbro, il moltiplicarsi delle voci strumentali in due soli esecutori.
Del piano di Bollani e del bandolim (mandolino portoghese a fondo piatto con dieci corde) di De Hollanda non si sollecitano solo tasti e corde, non si percuotono solo le strutture: dal loro dialogo inesauribile e imprevedibile, dal virtuosismo gioioso degli artisti scaturiscono anche combinazioni timbriche sorprendenti là dove non è mai posta in primo piano la ricerca coloristica e dinamica che fonda, invece, la tecnica classica. È invece il puro dialogo musicale a suggerire nella sovrapposizione fra la nettezza di avorio ed ebano e il pizzicar corde un retrogusto quasi di squillante clavicembalo, altrove, fra botta e risposta, sottili contrasti, sapide asperità, attriti scintillanti, che evaporano in un attimo nel meccanismo travolgente del gioco musicale.
Lo spirito e la tecnica sono quelli del jazz, il cardine è però quello della ricchissima tradizione brasiliana, incarnata dalla classe e dalla brillantezza di De Holanda, sposata in toto da Bollani in un perfetto sodalizio artistico. Le parole sono poche, non una sillaba di troppo, lasciando spazio a un discorso di note che fluisce lieve fra classici, composizioni originali dei due interpreti e squarci di irresistibile jam session, fra gioco e respiri più lirici o ambigui. Un piccolo caleidoscopio perfettamente coerente di pensiero e improvvisazione, jazz classico e contemporaneo, choro e altri stili brasiliani, canzone più o meno d'autore e avanguardia sperimentale. Apparentemente, senza pensarci troppo, di certo senza far pesare o comunque senza enfatizzare un sapere che resta puro e semplice presupposto per il gusto di far musica insieme disponendo del maggior numero di strumenti (e aperture) mentali possibili.
Praticamente impossibile distinguere in questi casi un programma prestabilito dai bis veri e propri. Ci godiamo queste due ore in compagnia di due grandi musicisti che se la godono con noi. Altro non chiediamo.