di Roberta Pedrotti
Il ciclo Il nuovo l'antico del Bologna Festival si chiude quest'anno con un magnifico concerto del Quartetto d'archi della Bayerische Staatsoper con il pianista Pierpaolo Maurizzi. Fra Lutoslawski, Schubert e Brahms una serata di musica di classe superiore.
Di concerti belli, o che comunque dessero da pensare avessero qualche buon motivo per farsi ricordare, per fortuna ne abbiamo visto più d'uno. Quando però ci si scopre a seguire il palco a bocca aperta, con l'espressione un po' incantata un po' imbambolata, allora c'è qualcosa più di un bel concerto.
Innanzitutto c'è il Quintetto in fa minore op. 34 per pianoforte e archi di Brahms, uno dei brani più affascinati del compositore tedesco, ma anche dei più ardui, per quella complessità e quel respiro sinfonico concentrati nell'essenzialità e nella filigrana dell'ensemble cameristico. E, soprattutto, c'è un gruppo che lo interpreta magnificamente, forse proprio perché l'attività dei suoi membri germoglia dal loro principale impegno sinfonico, coniugando quindi l'eccellenza della tecnica solistica si sposa con lo spirito e la pratica di un'intera orchestra. Stiamo parlando del Bayerische Staatsoper Streichquartett, complesso formato dalle prime parti in forza al teatro di Monaco di Baviera. Toccare con mano la qualità e la valorizzazione degli strumentisti di un'istituzione fondamentalmente lirica d'oltralpe impressiona, e può fare anche un po' male, se si pensa alla situazione italiana.
Il veterano e il portavoce è Yves Savary, da venticinque anni primo violoncello solista a Monaco e, attualmente, anche alla Staatskapelle di Dresda. A tale sfavillante biglietto da visita corrisponde un musicista di caratura superiore, cui spetta di aprire la serata in collaudato duo con il pianista, di pari levatura, Pierpaolo Maurizzi. Grave: metamorfosi per violoncello e pianoforte di Witold Lutoslawski è anche l'unico brano in programma consacrato al tema polacco del ciclo autunnale del Bologna Festival, una sorta di meditazione in memoria dell'amico Stefan Jarocinski, studioso di Debussy, attraverso l'allusione alle atmosfere – più che riferimento musicale esplicito – di Pelléas et Mélisande. I dieci anni di collaborazione fra i due interpreti si concretizzano in un'esattezza mirabile, dove tutto suona naturale e necessario, nel colore, nell'espressione, nella dinamica e nell'agogica.
Maurizzi si ritira e giungono David Schultheiss, primo violino, Guido Gärtner, secondo violino, e Adrian Mustea, viola, tutti parimenti blasonati in relazione alle rispettive età. Lasciamo la Polonia, che cede il posto a Schubert e al Quartetto Rosamunde: una meraviglia in cui si respira la pratica quotidiana del far musica insieme fra opera, concerti sinfonici e appuntamenti cameristici. Le quattro voci si intrecciano come fili di cristallo, con un nitore soggiogante. La confidenza, la naturalezza, la chiarezza con cui si dipana la preziosa scrittura schubertiana non conosce freddezza, non conosce accademia, anzi, intriga e sollecita l'attenzione nota per nota, frase per frase. Quel che non è il mordente solistico dello specialista votato esclusivamente alla musica da camera, è il magistero degli artisti, è l'intima compenetrazione nel testo, è il perfetto equilibrio, la disarmante familiarità del gruppo. Ed è magnifico, non temiamo di usar superlativi se non per riservarli al vero apice della serata, quel Quintetto di Brahms citato già in apertura.
Schultheiss, Gärtner, Mustea, Savary e Maurizzi hanno il corpo, la ricchezza, l'autorità di un'orchestra e la finezza, il labor limae, la trasparenza polifonica del quintetto. L'invenzione brahmsiana si gusta istante per istante, in un'unica arcata, in uno sviluppo eloquente che con una disinvoltura ancor più disarmante in rapporto alle difficoltà asperrime imposte dalla partitura. Si ammira la scienza compositiva, la misura formale, il controllo rigoroso e, nel contempo il genio creatore che pone un marchio indelebile sull'evoluzione della musica verso il '900. Nel Quintetto ci si potrebbe perdere, si potrebbe naufragare dolcemente, ma Maurizzi e i solisti della Bayerische Staatsoper tengon ben saldo il filo d'Arianna e uniscono all'autorità bonaria di Virgilio il canto irresistibile delle sirene, come le due anime di orchestra e di ensemble cameristico.
La sala è piena e alla fine è un tripudio di applausi. Una bella serata, anche per i musicisti stessi, assicura con un sorriso in buon italiano Yves Savary annunciando il bis, che, quindi, non potrà che essere la trascrizione per quintetto di Beau soir di Debussy, ulteriore gioiello di gusto, nuances, ispirazione e precisione.
Non poteva darsi chiusura migliore per questa edizione della rassegna Il nuovo l'antico del Bologna Festival. Di concerti belli, o almeno interessanti, se ne vedono, per fortuna, ma non succede tutti i giorni di incontrare cinque musicisti di classe superiore, nutriti reciprocamente da una così stretta, prolungata e variegata comunione artistica.