di Claudio Vellutini
Il primo e principale appuntamento della tournée americana del Regio di Torino, Guglielmo Tell in forma di concerto, è stato accolto dal pubblico di Chicago come l'evento operistico dell'anno.
CHICAGO, 3 dicembre 2014. Una sala gremita e un pubblico entusiasta ha salutato la tappa iniziale del primo tour nordamericano del Teatro Regio di Torino. Sotto la guida del direttore musicale Gianandrea Noseda, che ha annunciato il rinnovo del suo contratto con l’istituzione piemontese dopo le turbolenze dei mesi scorsi, le meastranze torinesi ed un cast di ottimo livello hanno dato vita ad una smagliante esecuzione del Guglielmo Tell rossiniano. Guglielmo Tell e non Guillaume Tell, poiché la versione presentata era quella italiana di Calisto Bassi, rivista da Paolo Cattelan sulla scorta dell’edizione critica a cura di Elizabeth Bartlet. Benché non manchino le ragione per obiettare a tale scelta (la versione metrica italiana, per quanto abilmente limata da Cattelan, male si adatta ad una scrittura vocale e melodica concepita per il francese), è pur vero che è in italiano che l’opera è sopravvissuta durante l’Ottocento, anche quando gran parte della produzione rossiniana ormai sembrava condannata all’oblio. E’ a questa tradizione, poco legittima dal punto di vista filologico ma di forte significato storico e culturale, che Noseda intende rifarsi. Lo si capisce anche dai numerosi tagli effettuati, che, alla prova dei fatti, ci facevano ripiombare nella temperie stilista antecedente la Rossini-renaissance. Tali accorciamenti erano in parte giustificati dal timore che la lunghezza della versione integrale potesse rivelarsi onerosa per il pubblico e per gli artisti. Tuttavia, l’eccessivo sfoltimento di ripetizioni di cabalette e strette finiva anche per provocare un percepibile sbilanciamento delle strutture formali: sembrava, infatti, che la tensione emotiva accumulatasi durante l’arco di un pezzo non riuscisse a trovare il necessario sfogo nella sezione conclusiva. A farne le spese erano soprattutto i numeri d’assieme, a cominciare dal concertato a chiusura del primo atto.
Si tratta di un peccato tutto sommato veniale, che però lascia un po’ di amaro in bocca laddove si consideri l’eccellenza dell’esecuzione. La reazione elettrizzata degli spettatori in sala sembrava suggerire che gran parte del pubblico ben volentieri avrebbe chiuso un occhio nei confronti della lunghezza dell’opera pur di godere appieno di tale livello esecutivo. Un merito, questo, condiviso da Noseda, dai cantanti e dalle masse. Una particolare menzione va innanzitutto al magnifico coro diretto da Claudio Fenoglio, che ha dato prova di compattezza, flessibilità e ricchezza di colori raramente riscontrabili tra le compagini dei teatri d’opera americani. Noseda ne ha sfruttato al meglio le molte qualità, incorniciandole entro un’interpretazione di grande impatto, teatralità ed eleganza. Il direttore ha compensato l’assenza di azione scenica con un arco narrativo di intensa drammaticità, senza lasciare però che l’energia sprigionata mettesse in ombra raffinati dettagli interpretativi. L’orchestra ha seguito il percorso intrapreso da Noseda con entusiasmo e indubbia efficacia, sebbene il confronto con altre compagini sinfoniche nella celeberrima ouverture non abbia giovato agli strumentisti torinesi. La loro, comunque, è stata una resa in crescendo: grazie ad un graduale bilanciamento timbrico tra le varie sezioni, l’orchestra ha infatti raggiunto una lodevole trasparenza (di cui avevamo sentito la mancanza nella sinfonia) senza perdere nulla in incisività e mordente sonoro.
Il pieno successo della serata è stato garantito da un solido cast, in cui si sono segnalate le prove di John Osborn (Arnoldo) e Angela Meade (Matilde). Osborn è ormai uno dei cantanti di riferimento dell’attuale panorama tenorile rossiniano, nonché interprete tra i più navigati della parte. Non solo le numerose asperità tecniche del ruolo erano affrontate e risolte con aplomb invidiabile (i numerosi do della cabaletta dell’aria del quarto atto hanno suscitato una meritata ovazione), ma Osborn non sembrava mai perdere di vista la sostanza musicale della scrittura rossiniana, ora scolpendo l’accento ora abbandonandosi in squisite mezzevoci (ad esempio nell’attacco del duetto con Matilde nel secondo atto). Accanto a lui, ha destato pari entusiasmo il soprano americano Angela Meade. Voce torrenziale ma flessibile sia nella coloratura che nella gestione delle dinamiche, la cantante ha dato prova di un’eccellente gestione della gamma, non escluso un registro acuto che, in altre occasioni, era parso talora ribelle. Nei panni del protagonista, Luca Salsi scolpiva il testo con accento michelangiolesco, trovando efficaci soluzioni anche laddove la traduzione italiana pareva scollarsi dal dettato musicale. Alle volte, tuttavia, sembrava che Salsi andasse alla ricerca di un’enfasi drammatica che ancora sembra non appartenere del tutto al suo strumento, nonostante l’oneroso repertorio affrontato (il pubblico locale aveva già conosciuto il cantante come protagonista del Macbeth verdiano diretto da Muti in forma di concerto con la Chicago Symphony Orchestra la scorsa stagione). Pregevoli le prove dei bassi Marco Spotti (Gualtiero), Fabrizio Beggi (Melcthal) e Paolo Maria Orecchia (Leutoldo). Anna Maria Chiuri non ha mancato di dar risalto alla parte di Edwige con la propria esuberanza vocale, così come Mikeldi Atxalandabaso ha risolto con slancio il breve ma arduo ruolo del Pescatore. Completavano degnamente il cast Marina Bucciarelli (Jemmy), Gabriele Sagona (Gessler) e Saverio Fiore (Rodolfo).
Alla fine dello spettacolo, dopo una sincera e lunga standing ovation, era diffusa la sensazione che a Chicago si fosse consumato l’evento operistico dell’anno.