di Roberta Pedrotti
Cento anni fa, il 23 ottobre 1920, nasceva Gianni Rodari. Uno dei maggiori intellettuali italiani del XX secolo, attualissimo ancora nel XXI per la sua capacità di unire etica e fantasia, gioco, didattica, mito e contemporaneità, libertà e consapevolezza, con una sensibilità particolare verso la musica.
Giovanni (Gianni) Rodari è nato a Omegna, sul Lago d'Orta, il 23 ottobre 1920. È nato in un'Italia che aveva già un piede nel baratro e stava per gettarvisi a capofitto, ma invece di esserne travolto, il giovane maestro piemontese formò la propria coscienza etica e letteraria, si unì alla lotta partigiana, ma fece anche di più, dedicando tutta la vita alla libertà. La libertà che viene dalla conoscenza e dalla consapevolezza, dall'educazione; la libertà che viene dalla dignità, dal rispetto, dai diritti condivisi senza nessun tipo di discriminazione; la libertà della fantasia, che è anche chiave di conoscenza e di etica. Quest'uomo nato cento anni fa rivolgeva queste sue riflessioni e la sua creazione al mondo contemporaneo, mescolava le fiabe antiche, i miti, Schubert e Verdi con la fantascienza, i cartoni animati, le nuove tecnologie. Quest'uomo, nato un secolo fa, senza poter prevedere quel che sarebbe avvenuto nel 2020, ha dedicato una delle sue raccolte più belle a un padre che, costretto a stare lontano da figlio, ogni sera legge a distanza le Favole al telefono. Non è un caso che proprio a Rodari la Biblioteca Braidense di Milano abbia dedicato un ciclo di letture online durante il lockdown e che alcune fossero affidate ad artisti come Marianna Pizzolato, Luciano Ganci e Ildar Abdrazakov, testimone della grande fortuna internazionale e non solo ex sovietica dello scrittore piemontese.
E improvvisamente, solo sessant'anni dopo, il 14 aprile 1980 moriva, Gianni Rodari. Senza preavviso, un intervento chirurgico apparentemente senza rischi, un collasso cardiocircolatorio. Fino all’ultimo aveva tenuto conferenze, incontrato insegnanti, visitato scuole, aveva approfondito le forme della grammatica della fantasia, studiato il folklore nonché l’analisi strutturale della fiaba nell’Urss. Ma, dopotutto, anche nella sua opera la morte non è uno spettro incombente, minaccioso e terribile, appare piuttosto come parte di un ciclo naturale, di una realtà che si esprime nei termini della fiaba e del mito senza però indulgere in un idillio zuccheroso. Il barone Lamberto (C’era due volte il barone Lamberto) ottiene l’eterna giovinezza e addirittura resuscita grazie alla continua ripetizione del suo nome, secondo l’antico proverbio egiziano “L’uomo il cui nome è detto resta in vita”, ma echeggiando anche l’alata fama omerica che consegna l’eroe all’immortalità. Lo stesso mito di Alcesti è rivisitato con lieve ironia, lasciando però il finale sospeso perché, se la regina è stata resa ai vivi da Ercole, l’equilibrio naturale non è stato ricomposto e la Morte attende ancora il suo tributo. Quel semplicione dell’eroe non capisce, sbuffa un po’:
Alcesti tornò in vita. Ercole si aspettava di vedere Admeto rallegrarsi e gioire di quel ritorno, e rimase molto male, invece, quando lesse nel volto del re soltanto la paura. Admeto temeva che adesso la morte non gli avrebbe perdonato. Anche Alcesti aveva una strana espressione triste e guardava il marito con l’aria di chiedergli scusa. “Strana gente – pensò Ercole, grattandosi la testa, – pare che il funerale cominci adesso. Oh, bene, non sono affari che mi riguardino!” Salutò in fretta gli amici e ripartì.
Nella chiarezza esemplare di una lingua limpida e semplice, fresca e non banale, non solo troviamo l’eterna contemporaneità del mito, ma soprattutto, pur con aria leggera e scanzonata, una delle letture più profonde e disperate del fato ineluttabile (l’Ananke) che svela le più profonde pulsioni dell’egoismo e dell’amore incondizionato e generoso. Gianni Rodari aveva un dono speciale per trasmettere la cultura per quel che dovrebbe essere, linguaggio e patrimonio quotidiano, tanto che non è possibile classificarlo semplicemente come un autore per l’infanzia, non tanto perché si ritenga tale definizione riduttiva – non lo è affatto – quanto per l’universalità della sua opera. Rodari è da un lato l’ultimo mitografo, l’ultimo aedo che raccoglie dalla realtà, da un patrimonio comune, dal rapporto con il pubblico – in molti casi, come apprendiamo dagli scritti teorici, una sorta di coautore – un repertorio fantastico che racchiude un patrimonio etico e civile
Basti pensare a come l’elaborazione giocosa dell’errore ortografico o sintattico (chi non ha mai letto l’Acca in fuga?), così come delle varianti regionali assumano un valore politico nel senso più alto del termine. La lingua italiana è il primo veicolo dell’Unità nazionale, ma anche dell’emancipazione delle classi più umili attraverso l’istruzione, l’ironia sull’errore non ne rinnega l’utilità, addirittura la bellezza il potere creativo (come nel caso della Torre di Pisa), tuttavia non è mai un alibi per l’ignoranza, anzi. Il veneto che non pronuncia le doppie è messo in burla come il romano che raddoppia ogni consonante, ma sempre con un sorriso leggiadro sulle labbra. La grave condanna dell’ignoranza come negazione della libertà è invece palese sia nelle avventure di Gelsomino nel paese dei bugiardi o di Giacomo di cristallo, che con la forza della verità sovvertono regimi dittatoriali, o nella brevissima Un oratore, che vale la pena di citare per intero:
Una piccola folla si raduna in una piccola piazza. – Che cosa vendono? – domandò il professor Grammaticus.
– Niente – gli rispose un tipaccio – C’è il comissio!
– Comissio? Con due esse? Ma allora sarà un discorso tutto sbagliato… Chi deve parlare? – Il tale.
– Ah, mi pareva! Un fascista. Allora tutto è chiaro.
E il professor Grammaticus si allontanò, scuotendo la polvere dai suoi pantaloni.
Di ben altro genere gli errori della povera gente, come gli emigranti cui il professore cerca di spiegare l’uso corretto degli ausiliari:
Il verbo andare – continuò il professor Grammaticus – è un verbo intransitivo e vuole l’ausiliare essere. […]
Il verbo andare sarà quella cosa che dice lei […] un verbo intransitivo, una cosa importantissima, non discuto. Ma a me sembra un verbo triste, molto triste. Andare a cercar lavoro in casa d’altri… Lasciare la famiglia, i bambini. […] Siamo sempre al paese anche se abbiamo andato in Germania e in Francia. Siamo sempre là, e là vorremmo restare, e avere belle fabbriche per lavorare, e belle case per abitare.
E guardava il professor Grammaticus con i sui occhi buoni e puliti. E il professor Grammaticus aveva una gran voglia di darsi dei pugni in testa e intanto borbottava fra sé: – Stupido! Stupido che non sono altro! Vado a cercare gli errori nei verbi… ma gli errori più grandi sono nelle cose!
E di errori nelle cose che ancor oggi non trovano soluzione o risposta ne troviamo anche quando, da insegnante, solleva il problema della scuola: nel breve Il maestro Garrone, da Favole al telefono, troviamo infatti, dopo un’allegra carrellata di novità futuribili, il nipote del ragazzone del libro Cuore che si lamenta:
Caro signor Gianni – egli dice – anche a me le novità fanno piacere. Che belle macchine ci sono nelle fabbriche, che belle astronavi in cielo. E anche il frigorifero, com’è bello. Ma la mia scuola, l’ha vista? È tale e quale come era ai tempi di mio nonno Garrone e dei suoi compagni: il Muratorino, De Rossi e Franti, quel cattivello. Di belle macchine, là dentro, neanche l’ombra. Gli stessi banchi graffiati e scomodi di una volta. Vorrei che la mia scuola fosse bella come un bel televisore, come una bella automobile. Ma chi mi aiuta?
Don Milani non è lontano, non è lontano il valore fondamentale di un’istruzione che sia reale strumento di crescita e libertà, di un’educazione rigorosa ma non oppressiva, che sia concreta opportunità di uguaglianza per le nuove generazioni d’ogni classe sociale. È un mondo politico in senso aristotelico ed etico, non necessariamente ideologico (anche la sua convinta adesione al marxismo non è certo un mistero) nel quale non esiste una distinzione manichea fra bene e male, ma nemmeno si cede a tentazioni buoniste. Al contrario, con un’ironia surreale si possono prendere a martellate i ladri e perfino il diavolo in persona, una bambola ultramoderna può ribellarsi al cliché e fare il maschiaccio, un rude centauro può rovinarsi per amore della motocicletta Micia e trovare la quiete familiare sposando una lavatrice, ma nessuno è buono o cattivo per natura. Nelle fiabe tradizionali troviamo fate e streghe, eroi e antagonisti, in Rodari esistono personaggi inseriti in un contesto che ne influenza le azioni: nessuno è buono o cattivo per natura, la Befana non ha diritto di portare il carbone a nessun bambino, la realtà può spingere all’errore, ma dall’errore si può imparare, lo si può correggere. Rodari, peraltro, è attentissimo all’attualità e alla tecnologia, parla di sputnik e transistor, è quasi preveggente nel ritrarre il mondo della televisione, fra spot e quiz, è fra i pochi a schierarsi a favore di Goldrake e dei primi anime giapponesi, riconoscendoli come un fenomeno da comprendere e non da condannare, come una nuova versione dei miti eroici di Ercole. E non trascura, appunto, mai il mito, la favola classica tanto amata e mai stereotipata, come nel delizioso Atalanta illustrato da Lele Luzzati e soprattutto in Storie di Re Mida, irresistibile pièce teatrale ricchissima di citazioni musicali. Attraverso le vicende del re frigio si sviluppa una parabola dell’uomo moderno, materialista e superficiale, alla conquista di se stesso e non è un caso che il cattivo gusto di Mida sia espresso proprio nella scena del giudizio nella gara canora fra Apollo e Marsia. Le didascalie sono spietate:
Marsia si inchina ed esegue. Bisogna scegliere con molta cura una musica grossolana, fra tarantella e beatles, ritmo a tormentone, melodia zorra, un bel terzinamento a condire il tutto. Qualcosa che faccia colpo immediatamente su un pubblico di giovanissimi, al quale, a primo orecchio, questa musica dovrà piacere più di quella di Apollo: esattamente come succederà al re Mida. […] Mida si diverte moltissimo; batte le mani a tempo, lancia gridolini di favore, accenna ogni tanto qualche passo di danza […] Apollo eseguirà un brano di musica classica possibilmente severo. L’accusa a Mida – e probabilmente al pubblico – deve essere evidente, quasi irritante: l’orecchio rovinato dalla musica di confezione non è più in grado di apprezzare la musica vera; il piede abituato a battere ritmi semplici e ossessivi non trova niente da fare quando i ritmi sono più segreti e complessi. […] Durante l’esecuzione Mida da principio sbarra gli occhi non crede alle proprie orecchie, poi fa smorfie di disgusto, sbadiglia, si siede sulla portantina che i servi hanno posato a terra e finisce per addormentarsi.
Alla fine il verdetto è scontato, l’artista che vorrebbe “far lavorare la gente col cervello” è invitato a non far venire il mal di testa alla gente ma ad adeguarsi ai ritmi moderni, come quelli di Berenice fatti in là, il motivetto nonsense proposto dal satiro Marsia. Il giudizio di Mida, fin dall’antichità è modello di stoltezza, tanto che vale al sovrano le ben note orecchie d’asino, tuttavia la versione di Rodari (pazienza se tira in ballo gli incolpevoli Beatles, il concetto è chiaro, così come condivisibile la critica agli imitatori stereotipati d’ogni moda) si caratterizza subito per un messaggio immanente, per una contestualizzazione che non lascia nessuno spazio all’ipocrisia. È del mondo di oggi che stiamo parlando, dell’omologazione e nella commercializzazione del gusto operata dai media, sia in letteratura, sia in musica, sia nella televisione. Ma non si tratta di un esempio isolato, perché Rodari, che pure studiò violino, appartiene a una generazione che ha nella musica e nel melodramma un terreno culturale comune riconosciuto (oggi non più come un tempo, se anche l’edizione Einaudi non riconosce in nota tutte le allusioni operistiche). La parodia può allora muoversi come gioco condiviso: “Alla tavola imbandita | su venite a folleggiar!” invita Re Mida con una strofa che può essere cantata sulle note di Sempre libera dalla Traviata, e alla stessa opera s’ispira il duetto fra il re e la regina “Addio del passato, belle rose ridenti | rimpiango perfino le spine pungenti”, dopodiché il pensiero corre a Tosca per la lode del dono prodigioso “O dolci mani, mansuete e pure | mani preziose, mani miracolose!”. I servi costretti a immergersi nel fiume Pattolo intonano “In acqua, in acqua entriamo | dove ci aspettano ranocchie e rospi”, ovviamente sulle note di Cavalleria rusticana e il barbiere minacciato di morte supplica “Mio signore perdono pietade | al barbiere la testa salvate”, quasi fosse Rigoletto. Il travestimento non è dissimile da quello operato dal Quartetto Cetra. In generale, però, Rodari non si limita alla citazione di versi e temi, ma si riferisce alla musica, operistica e strumentale, con la stessa aria di quotidianità con la quale tratta di miti classici o di bambole a transistor, con cui reinventa Il naso di Gogol sul lago di Como, trasferisce Cenerentola sul pianeta Venere o fa in modo che Pigmalione si distolga dalla perfezione artificiale di Galatea e sposi una dolce ex compagna di scuola. Nel Libro degli errori racconta la vicenda del Tenore proibito, dotato di voce così potente da non potersi esibire in nessun teatro (all’Arena di Verona, volgendosi al cielo, riesce a danneggiare un satellite); in Novelle fatte a macchina di un’Aida incisa da un solo uomo, che ha dedicato al sua vita a questo progetto, cantando ogni ruolo – coro compreso – e studiando ogni strumento, perfino applaudendo, acclamando o contestando per tutte le tremila persone che aveva immaginato dovessero assistere alla rappresentazione. Un delizioso divertissement, quest’ultimo, ma non alieno, per il lettore più smaliziato, da una piccola riflessione sulla riproducibilità dell’opera d’arte e sull’apporto della tecnologia nella musica. Indimenticabile è poi il ritratto di Piano Bill, protagonista di un racconto di sapore western ambientato nella campagna laziale, dove il nostro eroe cavalca solitario con il suo pianoforte e viene riconosciuto da contadini e allevatori per il tocco con cui attacca le Variazioni di Beethoven sul valzer di Diabelli, le variazioni Goldberg, la Trota di Schubert (ma non l’Ave Maria!) o il Microcosmos di Bartok. Un brillante esercizio di virtuosismo che gioca anche sull’effetto straniante di un repertorio colto e raffinato, descritto con dovizia di dettagli tecnici, collocato in un ambiente tradizionalmente caratterizzato come rozzo.
Una cultura musicale profonda e metabolizzata, viva al pari delle citazioni storiche, geografiche o calcistiche, come della fantasmagoria creativa delle invenzioni lessicali o narrative. Non stupisce pertanto l’affinità di Rodari non tanto con l’avanguardia tout court, quanto con la ricerca e all’impegno artistico in un percorso che lo porta quasi inevitabilmente a collaborare con Virgilio Savona e Lucia Mannucci, artisti con i quali condivideva il gusto per il divertimento, la freschezza dell’ispirazione e l’immediatezza della comunicativa anche nell’elaborazione semantica ai limiti del nonsense, nonché, naturalmente, l’impegno politico, da cui discende una precisa concezione dell’arte come interpretazione e critica della società, non come astrazione indipendente. L’alto valore etico dell’opera discende, certo, da una comune sensibilità ideologica, ma non è mai militante se non nel senso di un’aspirazione all’uguaglianza, alla libertà, alla pace e alla non violenza ben conscia delle contraddizioni tuttavia presenti e ineludibili nella realtà.
Molti compositori, è vero, hanno lavorato su testi di Rodari: Liberovici (Storie di re Mida), Dall’Ongaro, Piatti, Endrigo (per tutte Ci vuole un fiore). Resta tuttavia quello con Savona uno dei rapporti più significativi, iniziato nel 1973, quando musicò alcune delle Filastrocche in cielo e in terra, con la promessa di tornare a collaborare in futuro. Come testimoniò lo stesso autore in occasione della prima dell’Opera delle filastrocche:
Rodari e io, ci scambiammo subito una promessa: quell'esperienza non sarebbe rimasta senza seguito [...]. Mi disse anche che avrebbe scritto per me su misura una serie di filastrocche da cantare [...]. Un anno circa dopo la sua scomparsa, quando Luciano Berio mi affidò l'incarico di scrivere per l'Orchestra Regionale Toscana un'operina per ragazzi e mi dette via libera nella scelta dell'autore del libretto, pensai subito che avrei potuto finalmente mantenere la promessa fatta a Rodari [...].
Ho voluto costruire una musica piana e semplice, spesso sulla scia di moduli tipicamente popolareschi con scansioni ritmiche ben marcate, e usando l'accortezza di evitare inutili virtuosismi vocali o strumentali. Soltanto qua e là, rispettando il percorso della poesia di Rodari, ho inserito momenti di pensoso raccoglimento, di palpitazione espressiva o di concitazione drammatica. È nata così questa Opera delle filastrocche che risulta essere nel suo insieme, malgrado i due antichissimi specchi dell'umanità che di tanto in tanto vi fanno apparizione, un miracolo di ottimismo[...].
Nella partitura ho voluto offrire soltanto indicazioni di massima, spunti e suggerimenti in modo da stimolare ogni ulteriore intervento creativo e ogni possibilità di lettura. Se l’impianto generale vi appare saldamente predisposto nelle sue componenti essenziali (che vanno dall'indicazione tradizionale dei suoni sul pentagramma alla costruzione armonica, dalla selezione timbrica al colore dell'impasto orchestrale), ogni altra scelta è affidata agli stessi esecutori e al direttore d'orchestra. Le voci dei cantanti solisti (femminile, maschile, recitanti) sono intercambiabili, nel senso che le parti, cantate o recitate che siano, possono indifferentemente essere assegnate a ciascuno di essi.
L'estensione vocale delle melodie è tale da consentirne l'esecuzione, se si vuole, anche a voci infantili per una fruizione nelle scuole. E questo vale anche per il coro. L'inserimento del quartetto rock, composto da tastiere elettroniche, chitarra, basso elettrico e percussioni (per i quali è stata predisposta una guida di massima che copre l'intera opera e che lascia in ogni caso agli stessi esecutori ampia libertà d'interpretazione), il suo peso nel contesto della partitura, il dosaggio dei suoi interventi e delle sue sonorità, sono affidate agli stessi strumentisti e al direttore d'orchestra[...].
Non per nulla l’Opera delle filastrocche viene ancora eseguita con organici diversi, ripetendo quell’ideale di creatività e libertà (anche dai pregiudizi e dai condizionamenti mediatici) che è proprio della poetica rodariana. Una poetica fondata sulla formazione di uno spirito critico, sul rigore e la fantasia, sull’esattezza scientifica e lo stupore infantile. Nella musica, come nelle parole, “non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.