di Lorenzo Focanti
La figura storica e l'immagine letteraria del generale bizantino protagonista dell'opera di Donizetti
Che la memoria del passato possa servire da guida per il presente è un concetto antichissimo e per certi versi abusato. Già Cicerone, nel suo trattato sulla formazione dell’oratore, scriveva che «la storia è davvero maestra della vita» (historia vero […] magistra vitae: De orat. II 9, 36) e in molti, dopo di lui, ne hanno seguito le orme. Per quanto un assunto del genere rischi spesso di sfociare nello stereotipo, è innegabile che gli eventi storici sono spesso diventati per gli uomini e le donne di ogni tempo uno specchio del loro presente, un riflesso in cui cercare traccia del loro vissuto e delle loro azioni. Di qui la tendenza a setacciare il passato alla ricerca di esempi da seguire, di paradigmi morali che potessero dare risposta ai problemi e alle aspettative dei diversi momenti storici. Così, nell’Europa dell’ancien régime, i sostenitori delle monarchie assolute si sono riallacciati al buon governo di Tito e Traiano, mentre i loro nipoti rivoluzionari hanno preferito rivolgersi allo spirito repubblicano di Bruto e Catone. Un approccio di questo genere non si limitava a celebrare la grandezza di certi personaggi, ma poteva anche fungere da monito di fronte alla miseria e alla disgrazia degli altri. È questo il caso del generale Flavio Belisario (500 ca-565), braccio armato dell’imperatore Giustiniano contro Vandali, Persiani e Goti ed esempio par excellence dell’ingratitudine del potere e dei rovesci della sorte.
Protagonista della scena politica dell’Impero Romano d’Oriente per buona parte del sesto secolo d.C., il generale concluse la sua carriera sconfitto dalle calunnie e dalle accuse della corte di Costantinopoli. Incriminato per corruzione, egli si vide infatti privato dei beni e della libertà. Messo agli arresti domiciliari, fu liberato solo in seguito alle proteste del Senato, trascorrendo gli ultimi mesi della sua vita in un triste isolamento. Il contrasto stridente tra i meriti di Belisario e la rapidità con cui Giustiniano lo ha dato in pasto ai suoi nemici ha reso il generale il simbolo del servitore fedele colpito dall’ingratitudine del suo padrone. Una leggenda medievale (storicamente infondata, ma ugualmente significativa) ci presenta il vecchio Belisario accecato per ordine dell’imperatore e costretto a chiedere l’elemosina davanti al Lausion di Costantinopoli. La frase messa in bocca all’anziano mendicante – Date obolum Belisario, “Fate l’elemosina a Belisario” – sintetizza al massimo il significato morale della sua storia, l’insegnamento che le sue sventure possono dare agli uomini. Come un dannato dantesco, il generale invita i passanti a contemplare la sua rovina e a considerare che essa può colpire chiunque, a prescindere dal suo valore e dalla sua fortuna. È proprio questa densità semantica ad aver garantito il successo del racconto; a fare sì che, nell’arte successiva, l’immagine del mendicante accecato scalzasse quasi del tutto quella del generale vincitore in Italia e nelle province orientali dell’impero.
Gli eruditi bizantini in fuga dalla Costantinopoli assediata dai Turchi hanno portato con sé, tra le altre cose, la leggenda dell’accecamento. Arrivata in Europa occidentale, essa ha dato origine a un gran numero di riprese, più o meno arricchite di particolari fantasiosi. Nel diciassettesimo secolo, ad esempio, il drammaturgo spagnolo Antonio Mira de Amescua dedicò al generale e alla sua caduta il dramma El ejemplo mayor de la desdicha (1625), un’azione teatrale in cui Belisario si innamora nientemeno che dell’imperatrice Teodora. L’idea di una fortuna spietata, che irride quelli che pensano di essere al sicuro e che gira la sua ruota con implacabile necessità, si mescola dunque alla rappresentazione romanzesca di un amore impossibile, di una passione che porta alla rovina tutti i personaggi coinvolti. Un elemento curioso del dramma di de Amescua è costituito dalla rappresentazione di Antonia, moglie di Belisario. Dipinta dallo storico bizantino Procopio di Cesarea come una sposa frivola e infida, la donna assume in questo caso le sembianze di una figura severa e coraggiosa, fedele al marito e pronta a perdonare. È lei a chiudere l’opera affrontando Giustiniano (che con tatto encomiabile le propone di sposarlo di fronte al cadavere del restaurador del imperio).
Un intervento dell’imperatore conclude anche la tragedia Belisarius (1724) dello scrittore inglese William Philips. Conscio di aver sbagliato a punire il suo servitore più fedele, il signore di Costantinopoli invita il pubblico a non prestare orecchio alle calunnie degli invidiosi. Una morale che risuona anche alla fine del dramma della scrittrice americana Margaretta V. Faugeres, Belisarius: A Tragedy (1795), dove Giustiniano riesce a riconciliarsi con l’old blind beggar che un tempo è stato il suo più fido collaboratore. “Che nessuna povera anima oppressa […] distolga lo sguardo dal cielo e si consideri abbandonata!” esclama Belisario prima di lasciare la scena: “il sole della gioia può sorgere con luce abbagliante da dietro la nube più oscura del dolore” (may no poor afflicted soul […] look off from Heaven, and call himself foresaken […]. From behind the darkest cloud of sorrow, the Sun of Joy may rise supremely bright). La contemplazione della sventura di Belisario diviene dunque, nell’opera della Faugeres, un invito a non demordere e ad attendendere fiduciosi l’intervento del cielo. Una morale che riflette il carattere deciso e ottimista dell’autrice, attivista contro schiavitù e pena di morte e sostenitrice a distanza della Rivoluzione Francese.
È proprio nella Francia inquieta di fine settecento che il soggetto di Belisario trova terreno più fertile nel campo della pittura. Le opere di Jean-François Pierre Peyron, François-André Vincent e François Gérard ne sono una prova. Del resto, la rivoluzione si avvicina e per i monarchi assoluti non tira una buona aria. La disgrazia di Belisario diviene dunque una testimonianza contro gli arbitri del potere, una prova di come l’autorità possa giocare con le persone senza remore o pentimenti. Nel 1781, da poco rientrato dal suo viaggio in Italia, il pittore Jacques-Louis David dipinge quella che probabilmente è l’opera più celebre dedicata al vecchio generale: Bélisaire demandant l'aumône. Esposta con successo al Salon e attualmente conservata al Palais des Beaux-Arts di Lille, la tela mostra Belisario che chiede l’elemosina ai passanti. Una donna – esempio di pietà e compassione – gli dona qualcosa, mentre alle spalle di lei uno dei soldati di Giustiniano alza le mani in segno di sorpresa.
Passati gli ardori rivoluzionari, la vicenda di Belisario ritornò in Italia, trovando espressione e voce nella musica di Gaetano Donizetti. Belisario (1836), opera in tre atti su libretto di Salvadore Cammarano, riprende tutti gli elementi della tradizione precedente: gli intrighi della corte di Bisanzio, l’ingratitudine dell’imperatore e la condanna del suo generale. Artefice della rovina di quest’ultimo, la moglie di Belisario Antonina ritorna al centro della scena, figura tragica e controversa. Più simile al ritratto di Procopio che a quello di de Amescua, la donna medita vendetta contro lo sposo, colpevole ai suoi occhi di aver ucciso il loro figlio Alessi. La lettera con cui essa, novella Clitennestra, accusa Belisario di tradimento mette in moto tutta l’azione dell’opera, trascinandola verso la triste conclusione. Colpita dalla coscienza del suo errore (il figlio non è affatto morto come credeva) e travolta dai rimorsi, Antonina non può fare altro che maledire la propria sventura: “Calpestata, oppressa, abbietta, / sin dai figli maledetta, / ogni istante di mia vita / un supplizio fia per me.”
Le opere nominate finora non sono che un campione della vasta produzione dedicata a Belisario e alla sua fine. La potenza del soggetto e il messaggio che esso veicola ne hanno garantito la fama e la durata. E anche se, dalla seconda metà dell’ottocento in poi, l’immagine del generale vittorioso è stata riscoperta ed è tornata in auge (lo dimostrano i lavori di Felix Dahn, Robert Graves e – più recentemente – di Eric Flint e David Drake), essa non è mai riuscita a rimuovere del tutto la sua controparte: l’immagine di un Edipo accecato e solo, capro espiatorio di una corte corrotta e di una sorte infida.