di Roberta Pedrotti
Posati i calici del brindisi, si riflette sull'anno passato e quello appena iniziato. Per non dimenticare, anzi, elaborare il dolore e la crisi del 2020 in prospettive concrete per il futuro.
Prosit Neujahr. Dopo che i Wiener Philharmoniker ci hanno augurato buon anno in coro possiamo dirci davvero pronti a cambiare calendari e agende. Ma il 2020 è stato un anno da dimenticare? No, affatto. Non si dimenticano i morti e le sofferenze: i lutti, le tragedie, le crisi non si rimuovono, si elaborano, si superano. Il che non vuol dire credere alla favoletta del "ne usciremo migliori", perché è ovvio che non è così, anche se possiamo (anzi, dovremmo) provare a uscirne più consapevoli. Consapevoli, per esempio, del fatto che le situazioni estreme non rendono migliori, ma fanno emergere gli estremi, il meglio e il peggio della collettività e di ciascuno di noi.
Potremmo e dovremmo essere consapevoli di essere fragili, puntino nell'universo, esistenze di passaggio. Non possiamo dare nulla per scontato perché un esserino ignoto e invisibile può inceppare improvvisamente il meccanismo e sovvertire ogni nostra abitudine e certezza. Ma, anche, potremmo e dovremmo essere consapevoli del nostro straordinario potenziale, di saper resistere e reagire, di saper creare in pochi mesi nuovi vaccini e rispondere a una nuova emergenza ottimizzando tutti i tempi e le risorse, unendo capacità e volontà. La scimmia nuda senza artigli o denti affilati che doveva ingegnarsi per sopravvivere nella savana è arrivata sulla Luna e ha sconfitto malattie. Ma ha anche compiuto crimini non meno enormi, ha toccato ogni estremo, zenit e nadir. Non possiamo dimenticarlo, non dobbiamo cancellarlo, ma capire, elaborare, cercare di superare.
In questi mesi è emerso il potenziale del pensiero scientifico ed è emerso il pericolo concreto del pensiero antiscientifico, che non è più solo il folklore del complottista estremo, ma il piccolo, insinuante sospetto quotidiano verso i fatti e le competenze, la confusione fra la propria esperienza diretta e la complessità di sistemi più ampi, le proprie impressioni e i principi universali. È un senso malinteso per cui si mette tutto in discussione senza mettersi in discussione, è la tendenza a fare del proprio orticello e della sensazione individuale la misura di tutte le cose, senza, invece, provare a relazionarsi con un dibattito più ampio, sentirsi in vetta (o la vetta) senza alzare lo sguardo verso l’alto per osservare via via orizzonti più lontani. Ciò vale per il negazionista del covid, per chi ne ridimensiona la portata, è ribelle alle norme di sicurezza o scettico verso i vaccini, ma è un meccanismo sociale e mentale che si manifesta in ogni campo, estremo negativo opposto all’estremo, magnifico potenziale del pensiero umano. Chi ha studiato dovrebbe essere un punto di riferimento, non guardato con sospetto. Il pensiero scientifico dovrebbe essere un valore universale, non contrapposto, ma integrato a quello umanistico come antitesi all'ignoranza arrogante, alla superficialità.
Se abbiamo constatato la nostra fragilità, e la fragilità di tutte le più assodate abitudini, abbiamo potuto ripensare alle priorità. Il nostro corpo può resistere in condizioni estreme, l'essenziale materiale è davvero minimo e dovremmo essercene accorti facendo la coda per la spesa fra scaffali semivuoti che tuttavia non avevano nulla a che vedere (ci è mai mancato un pasto in tavola in questi mesi?) con quel che hanno patito soldati in trincea nella Grande guerra, schiavi nelle miniere, deportati nei campi di concentramento, vittime delle guerre civili e coloniali in Africa. Viceversa, c’è un essenziale immateriale che dà senso al funzionamento di organi e metabolismo, che ci anima anche in situazioni estreme, per il quale dobbiamo preservare la nostra salute.
Questo essenziale immateriale, all’apparenza inessenziale (non si mangia, non ci veste, non ci ripara dalle intemperie), è ciò che ci resta di questo 2020 e da cui ricostruire il 2021. Sono gli estremi positivi della ricerca, della scienza, della solidarietà, dell’arte, della cultura, dell’etica.
Ogni attività, in un modo o nell'altro, è stata toccata dalla crisi: logica vorrebbe che proprio ciò che è immateriale vada in secondo piano rispetto a ciò che serve alla pura sopravvivenza. La musica, il teatro, dopotutto, è solo dell'aria che vola. Invece, non ne abbiamo potuto fare a meno, e i teatri hanno inventato mille modi per continuare a esistere, perché questa è la loro natura e la loro impellente necessità: esserci e leggere il tempo in cui si è.
Di esempi virtuosi di resistenza e reazione responsabile ne abbiamo avuti tanti, gli estremi positivi di un mondo pieno di risorse che ha ancora una sana espressione. Non importa stilare classifiche o eleggere vincitori. Non importa chi è arrivato primo o chi ha fatto di più: importa che si sia fatto, che ci si sia ingegnati per lavorare in sicurezza e in sicurezza accogliere il pubblico, o raggiungerlo comunque quando l’accesso diretto non era possibile. Abbiamo visto l’Opera di Roma prima spostarsi al Circo Massimo per un bellissimo Rigoletto (Roma, Rigoletto, 20/07/2020) che ha anche riacceso dibattiti sull’interpretazione dell’opera oggi (Il regista d'opera nell'estate della ripartenza), poi unirsi al Circuito Lombardo per una Zaide mozartiana che è diventata un meraviglioso inno al teatro (Roma, Zaide, 22/10/2020, Streaming da Como, Zaide, 20/11/2020), infine produrre per la tv un poeticissimo Barbiere di Siviglia dai molteplici piani di lettura eppure lieve e garbato, commovente e sorridente (Rai da Roma, Il barbiere di Siviglia, 05/12/2020). Abbiamo visto le estati di Macerata, Torre del Lago, Martina Franca, Pesaro, Verona rimodularsi ma non fermarsi, così come a Parma, che prima trasloca nel Parco Ducale poi riesce a mettere in sicurezza il Regio e concludere il Festival Verdi al riparo dalle prime piogge autunnali. E poi, ancora, Pesaro che inventa un’appendice autunnale del Rof e, quando i teatri vengono chiusi ancora al pubblico, lo propone in streaming gratuito mantenendo tutte le recite (e quindi il lavoro di tutte le persone coinvolte), Bergamo che crea una web tv - con relativi contenuti appositi - e lancia almeno virtualmente le opere di Donizetti eseguite a porte chiuse in piena zona rossa. Abbiamo avuto le parate di stelle in grandi fondazioni, teatri come il Coccia di Novara che riaffermano un’identità di provincia sperimentale con nuove commissioni, l’Accademia rossiniana e Opera Next a Bologna che non si fermano, la volontà di continuare a proporre il grande repertorio, la scoperta di musica da camera e titoli più consoni alle norme sanitarie, la collaborazione di istituzioni culturali e musicali. Abbiamo avuto prove di altissimo livello da direttori di lungo corso e nuovissime generazioni, registi diversi e intelligenti, conferme e sorprese da cantanti e operatori culturali. Abbiamo avuto la commozione e il conforto del rito collettivo del Requiem di Donizetti al cimitero di Bergamo (Bergamo, Requiem di Donizetti al Cimitero Monumentale), del Requiem verdiano portato dalla Scala nel Duomo di Milano, nella Cattedrale di Bergamo e nel Duomo vecchio di Brescia (Brescia, Requiem (Verdi), 09/09/2020), di una miriade di toccanti concerti commemorativi, Requiem, Petite messe solennelle, Stabat Mater che fossero.
Ricorderemo, ricorderemo tutto quello che abbiamo sofferto e quello che è stato inventato in questo 2020, quel che è riuscito a leggere i tempi facendo arte, quel che ha funzionato un po’ meno ma comunque ha rappresentato il momento, ha risposto alle contingenze.
Ricorderemo gli esempi virtuosi o anche quelli meno felici, irresponsabilità e insensibilità, qualche capriccio e qualche intemperanza magari dettati da una comprensibile ansia o quegli estremi che situazioni estreme portano a galla, aiutando magari a far notare e aggiustare, appena possibile, quel che non va.
Naturalmente, in un dibattito che si sviluppa giocoforza nel caotico calderone dei social, le considerazioni costruttive si devono muovere fra mille divagazioni banali e fuorvianti, quando non decisamente dannose, come polemiche inutili e qualunquiste o sparate al limite del razzismo - o almeno in odore di ottusa e anacronistica autarchia - sulla nazionalità degli artisti. Per un quarto d’ora di visibilità o sperando di sgomitare per qualche vantaggio personale c’è chi, in queste stupide diatribe, si butta a capofitto, in un caos che rischia di far perdere di vista il vero obiettivo: ripartire dalla cultura, dal pensiero umanistico e scientifico, dal valore del lavoro intellettuale e artistico.
Puntare dritti all’obiettivo significa anche distinguere fra contenuto e strumento, non ce lo dovremo dimenticare, a dispetto dell’ostinazione con cui il ministro Franceschini ribadisce la sua idea di una “Netflix della cultura”. Proposta già fuori tempo massimo, perché anche istituzioni che ancora non ne disponevano negli ultimi mesi si sono dotate di una propria piattaforma web tv, hanno attivato e potenziato canali youtube, si sono coalizzate e hanno aderito a servizi di streaming con varie formule. La Rai stessa non è stata immobile, ma ha moltiplicato l’offerta di musica, teatro, documentari. Le strutture ci sono, semmai la questione è come sfruttarle e riempirle: per i teatri, creare contenuti appositi per questi media, relazionarsi con essi, proporre approfondimenti, interviste, speciali utili anche in tempi normali per raggiungere e attrarre il pubblico; per la radiotelevisione pubblica, rendersi finalmente conto che i canali dedicati alla musica d’arte (Rai5 e Radio3) non possono continuare a trasmetterla con un livello mortificante di compressione del suono, coordinare i settori e snellire la burocrazia interna, riorganizzare Raiplay in modo da rendere pienamente fruibile un archivio immenso (la Netflix della cultura ci sarebbe già e sarebbe la piattaforma on demand Rai), rinnovare, magari, qualche volto, qualche voce, qualche autore. Ad ogni modo, lo streaming è una scialuppa di salvataggio, una stampella se il teatro è chiuso o a ingressi ridotti, se gli spostamenti sono interdetti o difficoltosi, ma non può sostituire lo spettacolo dal vivo, semmai integrarsi ad esso, arricchire l’offerta che ha sul palcoscenico e con il pubblico in sala sempre il suo fulcro, prestandosi eventualmente a sperimentazioni (come a Palermo, quando per il Concerto di Capodanno diretto da Omer Meir Wellber si è anche trasmessa in tempo reale un’elaborazione elettronica contemporanea di brani dalla Traviata eseguiti in maniera tradizionale).
Lo spettacolo dal vivo comporta un impegno diretto, fisico e mentale, dello spettatore che deve mettersi in dialogo con l’altro senza la difesa della propria bolla virtuale, senza lo schermo della tastiera e del monitor. Anche il tempo necessario per raggiungere il teatro e poi rientrare a casa è tempo dello spirito, è tempo teatrale. Intorno al rapporto fisico dello spettacolo con il pubblico si sono spese parole che forse possono apparire retoriche o fumose, ma la questione è davvero sostanziale. L’arte non prescinde dal contatto, dallo spazio, dal tempo. Può sfruttare nuove tecnologie e dialogare con esse, anzi, è inevitabile, ma non può perdere la sua dimensione immanente.
C’è, poi, la questione del lavoro che torna alla ribalta anche in rapporto allo streaming. La crisi ha messo in luce l’urgenza di una giusta considerazione del lavoro artistico e intellettuale, ha fatto esplodere criticità amministrative e contrattuali, imposto una riflessione fra le parti in causa, ma anche un cambiamento di mentalità. La tecnologia solleva ulteriori questioni, perché da un lato offre nuove possibilità professionali (registi video, grafici, fonici, sviluppatori, autori, solo per fare qualche esempio) dall’altro rischia di falciarne altre fondamentali, perché se uno spettacolo si registra solo on line significa che tutto il lavoro di prove confluisce in un’unica recita, soltanto per la quale l’artista rischia di essere pagato, mentre comunque rimane disponibile a divinis (e i diritti? altro nervo scoperto), ci può essere meno spazio per tutta una fascia di interpreti giovani o comunque per seri professionisti che, tuttavia, non hanno particolare potere attrattivo in termini di share. Ecco un’altra ragione per cui il centro dell’attenzione deve essere la performance dal vivo, lo spettacolo che non deve essere vampirizzato dallo streaming, il quale, una volta esaurita la risorsa, finirebbe per afflosciarsi come un sacco vuoto. Per questo è urgente puntare sulla qualità e la dignità del lavoro, sulla sua etica e sulla formazione, ché in Italia pullulano le - anche ottime - accademie legate a importanti istituzioni, ma va ripensato tutto un sistema e una cultura della professione artistica e intellettuale.
Da questo punto di vista, non posso non concentrare la riflessione anche sulla vituperata categoria della critica musicale. Vituperata proprio perché manca una seria cognizione dell’importanza e della responsabilità dell’esercizio critico, sostituita da una serie di spiritosaggini e luoghi comuni purtroppo alimentati da alcuni esponenti della critica o sedicenti tali. Proprio lo streaming ha imposto nuove questioni etiche e di metodo nel rapportarci allo spettacolo dal vivo fruito attraverso uno schermo o in una sala semivuota con accesso riservato alla stampa. Questioni fondamentali, anche drammatiche, per il critico serio, che si distingue dal presenzialista autoreferenziale o dall’improvvisato a caccia di biglietti e visibilità. La crisi del 2020 ha colpito tutti i settori in tutto il mondo, ha colpito lo spettacolo dal vivo e tutti i lavoratori ad esso legati: fra questi lavoratori ricordiamo anche chi si dedica a riflettere sull’arte, a informare e offrire spunti critici, il che è molto diverso dal compiacersi di stilettate inflessibili o fornire belle citazioni da inserire in rassegna stampa. Sarebbe auspicabile, ora, un più deciso scatto di dignità della categoria, ma anche da parte di istituzioni, artisti e lettori: il buon critico non è colui che scrive ciò che verremmo leggere, ma chi scrive con onestà, cognizione di causa e buon italiano. Puntare alla qualità e darle valore: questo dovrebbe essere il vero pungolo e il punto di (ri) partenza in ogni settore.
D’altra parte, lo vediamo anche nella fama mediatica acquisita da storici, accademici, divulgatori culturali: il pubblico potenziale c’è e risponde alla qualità, basta solo fornire stimoli e contenuti. Allora, basterebbe dare la qualità. Invece di perder tempo scatenando guerre fra poveri e gettando in pasto di esche qualunquiste artisti e operatori culturali anche il dirottamento di fondi sull’inutilissima fantasia della Netflix della cultura, si potenzino e si riempiano di qualità le strutture che abbiamo. Si vigili con rigore sulle qualità e i titoli (intesi come reali e documentate competenze) di chi è chiamato a dirigere istituzioni culturali e fare divulgazione, si dia spazio anche nei media generalisti a contenuti di valore, che possono attrarre più delle barbared’urso e delle loro creature (compresa la sicula paladina delle bufale negazioniste che tanti morti e tanto dolore continuano a causare). Così, magari, si potrà alimentare anche il circolo virtuoso di un pensiero scientifico e umanistico, di una sala dialettica che rispetti lo studio e la competenza, non per principio di autorità e ipse dixit, ma per seria e continua ricerca.
Così, il meglio che la crisi ci ha portato a esprimere potrà dare i suoi frutti, così non dimenticheremo, ma sapremo elaborare tutto il dolore del 2020.