di Gina Guandalini
Semiramide, l'ultima opera italiana di Rossini, compie duecento anni il 3 febbraio 2023: ripercorriamo la storia di un'opera entrata nel mito.
Leggi la seconda parte: Duecento anni di Semiramide - II
Duecento anni di Semiramide - III
“Vous cherchez Miramìs? mi chiese una passante nel viale di Aix-en-Provence in cui mi ero smarrita. Mi piace pensare di essere stata presente alla prova generale di una rinascita importante dell’ultima opera italiana di Gioachino Rossini, in cui Samuel Ramey debuttava nel ruolo di Assur e Marilyn Horne ampliava la sua frequentazione della parte, già cantata nei paesi di lingua inglese.
Semiramide vedeva la luce alla Fenice di Venezia nel 1823, il 3 febbraio. Voglio ricordare l’importanza teatrale e musicale di questo caposaldo del melodramma.
Nella figura della regina dell’Assiria Shammuramat, che fu consorte di Shamsi-Adad V, re dall’824 all’811 a. C. e reggente dall’809 all’806 durante la minore età del figlio Adad-nirari III, si incarna il concetto negativo di Babilonia quale fu tramandato dalla Bibbia: era adorata in mezzo a una confusione di lingue e di popoli, a una libertà sfrenata di culti, di costumi e di abbigliamenti, era la meretrice per antonomasia. Come Sardanapalo, Shammuramat - Semiramis in greco - è un collage mitico di regnanti storici. La sua figura si confonde in parte con quella delle dee orientali della fecondità e della natura: Atarath, detta Atargatis, la mesopotamica Ishtar, corrispondente in terra del pianeta Venere, adorata in Palestina come Astarte (sembra che una fase di venerazione per Astarte sia ciò che ha reso “peccatrice” la Maddalena nei Vangeli, e non l’esercizio della prostituzione).
La leggenda sull’infanzia di Semiramide la vuole allevata da animali - nel suo caso colombe - finchè dei pastori la portarono a un ministro assiro che la adottò. Proprio come Edipo, Ciro il Grande e Romolo e Remo.
Erodoto la definì “grande sovrana”; Diodoro Siculo non le attribuì i giardini pensili ma la costruzione di diversi palazzi e un regno durato quarantadue anni. Ammiano Marcellino scrisse che fu lei a stabilire la presenza degli eunuchi di corte. Le dolenti note cominciarono quando furono cristiani militanti a tramandarla alla storia. Giustino (martire del II secolo) la descrisse come autocratica e lussuriosa; Paolo Orosio come «ardente di libidine, assetata di sangue, tra continui stupri e omicidi” e storicizzò una sua passione incestuosa per il figlio Nino, che lei rese lecita promulgando una speciale legge. Di conseguenza Dante la condannò all’inferno con i celebri versi: «A vizio dilussuria fu sì rotta, / che libito fe' licito in sua legge / per tòrre il biasmo in che era condotta. / Ell'è Semiramís…”. Così pure Boccaccio, in De Mulieribus Claris , dopo avere elogiato la forza d’animo e il coraggio di una vedova che regge e difende un grande impero travestendosi come il proprio figlio adolescente, afferma che “fece quella vituperosa legge, per la quale era conceduto ai suoi soggetti, che nei fatti di lussuria egli facessero come gli paresse”.
Un’impetuosa ma non storicamente attendibile difesa ha lasciato Christine de Pizan, femminista ante litteram italo-francese che nel suo Livre de la Cité des Dames, ai primi del Quattrocento, scrive dell’“immenso valore e grande coraggio” della regina babilonese: “nessun uomo poteva superarla in forza e in vigore. Non temeva nulla e non indietreggiava di fronte al pericolo…”.
A fare della nostra eroina un soggetto teatrale comincia letteratura spagnola del Seicento, come testimoniano La gran Semiramis di Cristòbal de Virués nel 1609 e La hija del aire (La figlia dell’aria, richiamo al mito delle colombe che l’avrebbero allevata) di Pedro Calderón de la Barca nel 1664. La svolta storica è Sémiramis, tragedia di Prosper Jolyot de Crébillon del 1717 (io ne possiedo una traduzione olandese del 1742). Un anno dopo il testo di Crébillon vede la luce la prima opera (forse) sulla regina babilonese: Sémiramis del compositore francese André Cardinal Destouches, che ha studiato con André Campra.
Ma è soprattutto il dramma Semiramide riconosciuta di Metastasio, che è del 1729, agli inizi della sua produzione teatrale, a lanciare la bellicosa regina come carattere scenico di grande fascino e spicco; anche perché si presenta in scena nei panni del proprio figlio adolescente, e ritorna ad abbigliamento e aspetto femminile alla fine. Obbrobrio per la cultura giudaico cristiana (“La donna non si metterà un indumento da uomo né l'uomo indosserà una veste da donna; perché chiunque fa tali cose è in abominio al Signore tuo Dio”, Deuteronomio 22. 5); ma anche elemento perfettamente adatto all’ambiguità del melodramma di quell’epoca. Ecco quindi che trionfano in teatro – tutte con il titolo metastasiano - nel 1729 un’opera di Leonardo Vinci e una di Nicola Porpora, in cui cantò Farinelli; nel ’30 Semiramide di Leonardo Leo, tre anni dopo con lo stesso titolo si cimenta Vivaldi a Mantova. Tornano al titolo di Metastasio Haendel a Londra tre anni dopo, e Giovanni Battista Lampugnani a Roma nel 1741 (come semplice Semiramide l’opera è ripresentata a Padova nel 17450). Vengono poi altre tre opere sul dramma di Metastasio di Niccolò Jommelli nel 1742, di Hasse nel ’44 e di Gluck nel 1748 al Burgtheater di Vienna.
A questo punto è la tragedia di Voltaire che imprime una svolta al personaggio: nel 1748 rielabora il dramma di Crébillon, narrando di regicidio, matricidio, apparizioni soprannaturali, cripte sotterranee, intrighi politici, un accenno all’incesto; infine una scena di follìa, che Rossini attribuirà al basso. Ci sono i nomi di Assur e di Ninia/Arsace, c’è il giudizio morale sui regnanti criminali.
Intanto i teatri d’opera vedono e ascoltano le Semiramidi di Baldassarre Galuppi, Giuseppe Sarti, Johann Adolf Hasse, Antonio Sacchini, Tommaso Traetta, Ferdinando Bertoni, Sebastiano Nasolini, Pietro Alessandro Guglielmi, Antonio Salieri. Contabilità noiosa? Semplicemente l’attestazione dell’importanza di questa regina nella storia del melodramma italiano.
L’ottima traduzione di Melchiorre Cesarotti del dramma di Voltaire è del 1771 ed è con essa che inizia la preistoria, per così dire, della Semiramide di Rossini. Nel 1786 va in scena a Firenze La vendetta di Nino, di tale Alessio Prati, in cui vediamo intorno alla regina Arsace, Azema, Mitrane e Oroe; al posto di Assur c’è suo figlio Seleuco.
Oggi noi non abbiamo più presente quale fu la risonanza degli Orazi e i Curiazi di Domenico Cimarosa: dal 1796 furono modello e termine di paragone per il genere operistico aulico e tragico, ambientato nell’antichità. Atmosfere cupe e misteriose, scena che si svolge in un sepolcro, un giuramento solenne: tutto questo precede il Maometto II e Semiramide . Quando alla Scala Isabella Colbran interpretò insieme al castrato Giovanni Battista Velluti il Coriolano di Giuseppe Nicolini, i critici si appellarono in massa all’esempio di Orazi e Curiazi per giudicare quest’opera.
Nel 1801 a Lisbona Marcos Antonio Portugàl, detto Portogallo, mette in scena La morte di Semiramide.
Ed ecco entrare in scena la prima moglie di Rossini, l’artista per la quale – e con la quale, si presume - ha scritto Semiramide. “Bellezza castigliana, forme giunoniche, splendido colorito, occhi ardenti, pupille saracene, nerissimi capelli fluenti”: così un pettegoliere del Novecento descrive la prima moglie di Rossini, Isabel Colbran (1784-1845), sulla scorta dei numerosi ritratti. Figlia di un violinista e voce splendida per qualità naturali e scuola, capace di esecuzione di passi di agilità fantasmagorici e di accento drammatico come poche altre cantanti prima e dopo di lei. Era la vera artista tragica, alta e imponente, evidentemente capace di suoni fermi e sonori. Napoli le fece da cassa di risonanza. Vi cantò, fra l’altro, La vestale di G. Spontini (1811); Donna Anna in Don Giovanni (1812 e 1816); Medea in Corinto di Mayr (1813); la Contessa nelle Nozze di Figaro ( 1814); Elisabetta,regina d'Inghilterra di Rossini (“splendida interpretazione…successo di entusiasmo” riporta Stendhal che poi diventerà suo storico detrattore) e La morte di Semiramide di Nasolini (1815); Ifigenia in Tauride di Carafa, Otello ossia Il omro di Venezia , la cantata Le nozze di Teti e di Peleo e Tancredi (nel ruolo del titolo, con baffi e pizzetto sul viso) di Rossini (1816); Armida di Rossini (1817 e ’18); Mosè in Egitto di Rossini, Griselda ossia La virtù in cimento di Paer e Ricciardo e Zoraide di Rossini (1818); La gazza ladra, Ermione e La donna del lago di Rossini (1819) ; Fernando Cortez di Spontini, Maometto II e Torvaldo e Dorliska di Rossini (1820); Zelmira come ultimo titolo rossiniano nel ’22. La precisazione “di Rossini” non è inutile, dato che diversi compositori musicavano lo stesso libretto o titolo, e sottolinea la stretta correlazione della cantante spagnola con le musiche del cigno di Pesaro.
A ispirare la Semiramide deve avere contribuito il melodramma Artemisia regina di Caria di Cimarosa, che la Colbran cantò a Bologna nel 1809 con Velluti. Artemisia è regina e vedova, le spoglie del consorte sono in un sepolcro dove appare il suo fantasma, causandole dei rimorsi; c’è il Re di Persia sotto mentite spoglie, che ama ricambiato Artemisia. All’Opéra-Comique di Parigi l’anno seguente il compositore Charles-Simon Catel dà alle scene la sua Sémiramis: nel ruolo di Azema c’è Alexandrine-Caroline Branchu, la prima Vestale spontiniana (ruolo anche della Colbran, come si è visto). La nostra Isabella ha in repertorio dal 1815 un pastiche di musiche messo insieme da Portogallo- che pure aveva scritto una sua opera sulla regina babilonese - su materiale del melodramma “semiramidesco” di Nasolini che risaliva al 1792. È nientemeno che Meyerbeer a presentare a Torino, nel 1819, Semiramide riconosciuta , il cui testo si noti, è del poeta veronese Gaetano Rossi, che sarà autore del libretto rossiniano. Ha già scritto per il pesarese i libretti di La cambiale di matrimonio e Tancredi; ma non c’è compositore italiano di qualche fama tra il 1797 e il 1859 (morì nel 1855) che non abbia messo in musica un suo testo.
Nell’estate del 1822 Rossini concorda con la Fenice di Venezia la composizione di un’opera nuova, su testo di Rossi. Il libretto è quasi certamente concepito a tre, Rossini con Gaetano Rossi e la moglie, nella villa della coppia, a Castenaso nel bolognese.
Venezia è all’epoca piuttosto provinciale: è l’unica piazza che nega a Rossini e alla consorte i frenetici festeggiamenti, gli straordinari onori dei teatri di tutta Europa; per la stagione 1822-’23 si appoggia a Morlacchi e all’ormai senescente castrato Velluti. La Fenice non sembra capire l’importanza di Gioachino Rossini e di Isabella Colbran. Ma è tutto il Veneto che reagisce al Rossini napoletano con critiche e pamphlet. È quindi necessario al trio Rossini-Rossi-Colbran puntare sulla classicissima tragedia volterriana, sull’imponenza della macchina teatrale e sul virtuosismo più fastoso. Isabella è afflitta da tempo da bronchiti e laringiti, ma non vuole darsi per vinta. Arsace non viene assolutamente affidato a un castrato ma al contralto Rosa Mariani. Va detto che in quel 1823 anche Meyerbeer non vorrebbe Velluti nel suo Crociato in Egitto per Venezia; chiede Carolina Bassi Manna, ricca voce di contralto, ma non sarà accontentato.