Direttori, registi e il senso del Belcanto

di Roberta Pedrotti

La produzione dei Puritani per il Belcanto Festival di Modena stimola riflessioni sul ruolo di direttori e registi in questo repertorio, sull'importanza della comprensione e della restituzione del suo linguaggio.

Leggi la recensione di Irina Sokina: Modena, I puritani, 12/05/2024

Cosa si intende per Belcanto? In senso stretto, il Belcanto è uno stile, un'estetica sulla cui definizione precisa si potrà anche aprire una discussione, ma il cui cuore storico si può con una certa tranquillità comprendere intorno all'opera di Rossini, Bellini e Donizetti e che ha come riferimento, nella tecnica vocale, l'impostazione codificata da Manuel Garcia jr. In senso lato, nell'immaginario comune, il termine ha finito per assorbire gran parte dell'opera, soprattutto italiana, e quindi la passione per le voci, un canto che non può che esser bello (e la tecnica del Garcia, in effetti, è valida per un po' tutto il repertorio). Festeggiare il Belcanto con un Festival, soprattutto nella città natale di Mirella Freni e Luciano Pavarotti e dopo il riconoscimento Unesco del canto lirico italiano a patrimonio culturale dell'umanità, può diventare un festeggiare la melomania nel suo senso più vasto. E va benissimo. Infatti a Modena con I puritani e il bis di “Suoni la tromba e intrepido” non si può dire che non ci si sia divertiti, sebbene non manchino altre riflessioni, com'è giusto che un festival susciti.

Comunque si voglia intendere la parola belcanto, se di canto si parla le voci non sono un problema. Anzi. Anche senza avere divi e superstar, oggi può essere più facile allestire un'opera come I Puritani rispetto a qualche lustro fa. Le nuove generazioni sono ormai abituate a comprendere nel proprio bagaglio di studi le esigenze del Belcanto e se un tempo questi titoli (pensiamo anche a Guillaume Tell) erano accessibili a pochi tenori e sovente a patto di tagli e adattamenti. Oggi le alternative per proporre senza troppi compromessi le parti mitiche scritte per Rubini o Nourrit esistono e non solo alla portata dei teatri più grandi e ricchi. Lo vediamo a Modena, dove incontriamo Ruzil Gatin, un giovane formato all'Accademia rossiniana di Pesaro, già apprezzato in varie occasioni, comprensibilmente cauto al debutto come Arturo Talbo, specie nei passi più eroici, ma senz'altro attendibile. Lo vediamo anche in un soprano d'estrazione più lirica che virtuosistica come Ruth Iniesta, che si impone nel cantabile ma risolve pure i passi di coloratura. Convince pure Alessandro Luongo, un Riccardo sanguigno senza essere volgare, ed è splendido per classe e velluto timbrico il Giorgio di Luca Tittoto. Insomma, un cast di tutto rispetto, a riprova del fatto che oggi allestire I Puritani è possibile, forse più di qualche anno fa, quando magari per godere dell'Elvira inarrivabile della Devia capitava di dover digerire Arturi improbabili.

Il problema, oggi, è un altro, e non si parla qui delle varie questioni sociali, educative, politiche, amministrative, economiche, pubblicitarie che colpiscono il mondo della cultura e dell'arte. Pensiamo a cosa si porta in scena quando si parla di Belcanto e al ruolo in questo repertorio del concertatore e del regista.

Innanzitutto, il testo. Dei Puritani esiste un'edizione critica curata da Fabrizio Della Seta e pubblicata da Ricordi nel 2013, ben undici anni fa (e esisterebbe anche una versione alternativa progettata per la Malibran e che in Italia non si vede dagli anni '80). Si tratta di uno strumento per i musicisti, non di una tavola della legge inviolabile nella contingenza teatrale; semmai, dovrebbe offrire le indicazioni e i materiali per poter compiere delle scelte con cognizione di causa. Invece ci troviamo ancora ad ascoltare I Puritani “come una volta”, con materiali datati e tutti i tagli di tradizione. Mancano i tempi lenti del terzetto del primo atto (“Se il destino a te m'invola”) e del duetto del terzo (“Da quel dì che ti mirai”), così come manca la cabaletta finale (“Ah sento, o mio bell'angelo”, per soprano e tenore nella consueta lezione parigina, per soprano solo nella versione napoletana, di rarissima esecuzione). Sono pagine con una precisa funzione musicale e drammaturgica, non servono solo a ossequiare una forma, ma in questa forma esprimono un contenuto. Si tratta di dare ad Arturo la possibilità di elaborare l'addio a Elvira, di conferire a un momento cruciale dell'opera uno spessore che non si può prendere alla leggera; si tratta di ampliare il chiarimento fra i due amanti e rendere più sensato e graduale il ritorno alla ragione della protagonista; si tratta di non chiudere sbrigativamente il sipario ma di concedere a Elvira e Arturo il naturale giubilo dopo tanto dolore.

Presentare I Puritani con questi tagli sostanziali, significa portare in evidenza il problema ancora urgente della comprensione del linguaggio belcantista, che, al pari di quello barocco, non può essere equiparato a un'abbagliante ipertrofia di convenienze teatrali fra le quali muoversi con anarchica disinvoltura. I margini di libertà esistono eccome, ma necessitano di conoscenza e padronanza di una logica, di un vocabolario che non possono essere ignorati. Da questo punto di vista, evidentemente, c'è ancora molta strada da fare, in primo luogo cominciando a considerare il direttore d'opera – e d'opera belcantista – non come un passivo accompagnatore, un custode della tradizione a cui basti far quadrare i conti senza disturbar le voci (e, anzi, se i conti in buca non tornano, l'importante è che sul palco ciascuno possa non essere troppo infastidito). Per Bellini, per Donizetti, per Rossini sono necessari direttori di vaglia, che ne comprendano il linguaggio e collaborino attivamente con orchestra, coro, solisti. Lo si è visto a Modena, dove l'apparente tranquillità tradizionale della concertazione di Alessandro D'Agostini, l'apparente facilitazione dei tagli si concretizzavano anche in uno stacco dei tempi avulso dalle logiche dell'articolazione del testo e della frase, dalle logiche della voce e del belcanto. Non si tratta solo di velocità, si badi bene, anche se la meccanica concitazione di “Se tra il buio un fantasma vedrai” è molto meno tesa e incalzante di scansioni ragionevolmente più cantabili; si tratta di coerenza e senso interno, come si avverte nella cavatina di Riccardo, che forse cerca l'arte del rubato, ma sembra piuttosto ingolfarsi goffamente nell'agogica.

Un discorso simile si può fare per l'altro riferimento fondamentale di una produzione operistica: l'idioma del Belcanto deve essere compreso, amato, valorizzato dai direttori come dai registi, in questo caso Francesco Esposito. E questo non ha nulla a che fare con la scelta dell'ambientazione o del taglio drammaturgico, giacché ogni interprete ha tutto il diritto di scegliere e sottoporre al giudizio altrui una propria strada, sia essa di narrazione più letterale o di rilettura più radicale, di contesto storico o traslato. In ogni caso, però, si esige una cura della recitazione, un'attenzione al dettaglio che non può essere sostituita dall'ostentata e acritica ripetizione del passato, se questa non lo rinnova, non lo rivive, ma lo ricalca soltanto. Spade sguainate e volte al cielo per ogni frase battagliera, braccia protese, un'Elvira che non sembra tanto una fanciulla innocente e ingenua spezzata nell'animo da emozioni impreviste, estreme e opposte, bensì una sciocchina infantile che all'improvviso comincia a vaneggiare: è un buon servizio, questo, ai Puritani, alla loro teatralità, alle passioni che esprime? Ne dubito. Sarebbe meglio, invece, scandagliarne le logiche, abbracciarle e comunicarle con convinzione, esattamente come dovrebbe fare il direttore. Così come dal podio deve arrivare la necessità di ogni elemento musicale in rapporto all'azione, così sul palco si deve intendere il perché ogni personaggio agisce e si esprime in un determinato modo, senza limitarsi a disporre il tutto nel modo più agevole, rassicurante e innocuo.

Finché non sarà chiaro a tutti, direttori e registi in primis, che il Belcanto – lo si intenda in senso stretto o in senso lato – non è un'esposizione di virtù vocali assemblabile a piacimento secondo l'estro del momento, bensì teatro musicale: teatro e musica che hanno le loro logiche, il loro significato, i loro codici. La Renaissance di questo repertorio intrapresa ormai da decenni sta portando a generazioni di cantanti sempre più consapevoli in questo senso, anche senza essere divi virtuosi. Abbiamo anche dei direttori e dei registi che hanno dimostrato e dimostrano di aver acquisito gli strumenti per interpretare davvero questi testi nella loro completezza e complessità. E, tuttavia, non basta ancora, lo vediamo. C'è una mentalità che ancora deve cambiare e anche a questo possono servire i Festival, ma riguarda anche le direzioni artistiche delle stagioni regolari, il cui ruolo nella società comporta anche dei doveri culturali. La passiva adesione allo stereotipo, la semplificazione che sostituisce l'approfondimento non riguarda solo la restituzione di un repertorio operistico, ma anche una ricchezza di pensiero. Capire perché una cabaletta o un cantabile è necessario nelle logiche di un'opera non è in fondo troppo diverso dal capire perché la punteggiatura o il congiuntivo sono necessari a una comunicazione verbale più completa e articolata. Non si tratta solo di qualche minuto in più o in meno di musica, ma di una riflessione sul senso di cosa si esprime e come lo si fa.