Il re dei baritoni, cognato di Matteotti

di Gina Guandalini

Nel centenario del delitto Matteotti, ripercorriamo la biografia artistica e intellettuale del cognato, il baritono Titta Ruffo, voce rivoluzionaria quanto lo fu Caruso per il registro tenorile, oltre che interprete colto e impegnato.

Cento anni fa, il 10 giugno 1924, il senatore Giacomo Matteotti, segretario del partito socialista, veniva sequestrato da cinque assassini della “polizia politica” sul lungotevere Arnaldo da Brescia a Roma. Aveva denunciato in Parlamento i brogli elettorali delle ultime elezioni-farsa stravinte dai fascisti. Fu Filippo Turati ad annunciare in Parlamento la scomparsa di Matteotti; il cui cadavere veniva rintracciato solo il 16 agosto seguente nei boschi di Riano, a nord di Roma. Mussolini si dichiarò del tutto ignaro degli avvenimenti.

Il 3 gennaio 1925 Mussolini proclamava alla Camera e al mondo: «La violenza… non può essere espulsa dalla storia… io dichiaro qui al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Sono stato io che ho voluto che le cose giungessero a questo determinato punto estremo. Quando due elementi sono in lotta e sono irreducibili, la soluzione è nella forza. Non c’è stata mai altra soluzione nella storia e non ci sarà mai». Ecco in piena luce il modello e l’ispirazione di Hitler, Franco, Pinochet e compagnia cantante.

Perché raccontare questo in una sede musicale? Perché tra quelli che portavano il feretro di Matteotti al funerale c’era il baritono Titta Ruffo, fratello della vedova Velia Matteotti, poetessa e intellettuale. Morto Enrico Caruso tre anni prima, era ormai lui, insieme al russo Fjodor Chaliapin, il più grande cantante operistico vivente, per doti vocali e interpretative e per personalità. Sul periodico specializzato Gramophoneun giovane Walter Legge – il produttore discografico della Callas tra il 1953 e il ’62 – scriveva di un recital che Ruffo aveva dato a Londra nel 1922: «Dalle sue prime frasi il pubblico fu conquistato dalla travolgente bellezza della sua voce. Ma c’era ben altro: l’infinita sottigliezza, la varietà timbrica e coloristica, l’intuizione interpretativa e la spontaneità di Ruffo, il suo magnifico controllo, la stupefacente ampiezza dei fiati e l’impeccabile fraseggio facevano di lui un genio».

Ruffo decise di non cantare più in Italia. Unica eccezione, un anno dopo, due recite di beneficienza dell’Amleto di Ambroise Thomas, suo inimitato cavallo di battaglia, a Pisa.

Lì era nato nel 1877 da un artigiano del ferro battuto. Il suo vero nome era Ruffo Cafiero Titta: il nome di battesimo era quello di un cane molto caro al padre, ucciso in un incidente di caccia; il secondo nome era un omaggio a Carlo Cafiero (1846-1892), il marxista e poi anarchico pugliese che la famiglia ammirava. Si sa che la madre del nostro baritono, contraria al nome canino, lo chiamava Cafiero.

Negli anni in cui la povertà lo costringeva a lavorare di incudine e martello sotto il giogo del padre, o di altri padroni ancora più rozzi, l’educazione musicale e vocale di Titta procedette a salti e a tentoni, ma sempre con curiosità e con volontà di apprendere. Stabilire “con chi ha studiato” Titta Ruffo è un po’ come stabilirlo nel caso di Franco Corelli: si tratta in fondo di appassionati e intelligenti autodidatti. Nel caso di Ruffo, dopo una falsa partenza da basso, la voce venne avviata al canto da svariati baritoni di buon professionismo, tra cui Senatore Sparapani; questo nonostante egli dichiarasse su Musical America, al culmine della carriera, di dovere tutto alla sapienza musicale di suo fratello Ettore, ed elogiasse un docente newyorkese di Rosa Ponselle, William Thorner. A Santa Cecilia studiò anche recitazione con l’attrice Virginia Marini. Nel 1897 incise a Milano alcuni cilindri pionieristici per la Columbia, poi scomparsi. In quegli anni lavorava a Milano, come sostituto e accompagnatore, il livornese Romano “Nino” Romani, uno dei protegés di Puccini, che fu anche direttore artistico della sede milanese della Columbia. La Ponselle affermò di avere scelto Romani come suo storico preparatore e accompagnatore perché «aveva preparato Titta Ruffo»: e qui un altro consulente si aggiunge alla sorprendente “gavetta” del nostro artista. Nell’aprile 1898 ebbe luogo il debutto: Araldo del Lohengrin al Costanzi di Roma, già con il nome definitivo “Titta Ruffo”. Poche frasi applaudite con entusiasmo dal pubblico, e da quel momento partì una carriera di dimensioni mitologiche.

Nello stesso anno del debutto Titta Ruffo cantò – a ventun anni – il primo dei suoi moltissimi Rigoletti; poi Don Carlo nella Forza del destino. In poche stagioni ci furono storici debutti, tutti applauditissimi: Don Sallustio nel Ruy Blas, Renato nel Ballo in maschera, Barnaba nella Gioconda, il Re Alfonso nella Favorita, Escamillo, Tonio, sua personale ricreazione. E poi Germont padre, Re Carlo in Ernani, un travolgente Nelusko nell’Africana (la registrazione di “All’erta marinar!”, del 1915, è tuttora stupefacente per potenza e virtuosismo), Gérard in Andrea Chénier, e Jago. Tutto questo in soli tre anni di carriera, che per di più fu una carriera internazionale. Ancora altri esordi ben prima di compiere trent’anni: Scarpia, Amonasro, Cascart in Zazà. E poi il Figaro rossiniano. In disco la sua cavatina fa ancora testo e sospetto che proprio di questa incisione parli Thomas Mann nella Montagna incantata nel capitolo degli ascolti operistici. Traduco:

«una voce umana sgorgava da quel cofano, maschile, morbida e potente insieme, un baritono italiano dal nome celebre – e ora non si poteva più parlare di velo o di distanza: il superbo strumento risuonava nella sua piena estensione e forza, e come quando uno passa in una delle stanze accanto e non vede più il grammofono, così sembrava proprio che si trovasse nel salotto l’artista, nella sua persona fisica, con il foglio della musica in mano, e cantasse. Cantava un’aria operistica di bravura nella sua lingua eh, il barbiere. Di qualità, di qualità! Figaro qua, Figaro là, Figaro, Figaro, Figaro! [in italiano]. Gli ascoltatori si piegavano dal ridere davanti al suo parlato falsettistico, davanti al contrasto tra quella voce da orso e quella parlantina da scioglilingua. Gli esperti coglievano e ammiravano l’arte del suo fraseggio e la tecnica dei suoi fiati. Maestro dell’irresistibile, virtuoso del gusto italiano del ‘da capo’, sembrava tenere la penultima nota, prima della tonica conclusiva, in inarrestabile progressione, con la mano all’aria, di modo che esplosero per forza grida di approvazione prima ancora che avesse finito. Era una cosa strepitosa.»

Una locandina dell’aprile 1904 che presentav a Rigoletto alla Pergola di Firenze recava già la foto del giovane protagonista; tanto le sue doti vocali impressionavano e richiamavano. Alla Scala Titta Ruffo arrivò in quell’anno, con Rigoletto e due debutti:Germaniadi Alberto Franchetti (ruolo di Carlo Worms) e Griselda (Grisèlidis) di Massent nel ruolo non del Diavolo ma del Marchese di Saluzzo.Venne quindi convinto a interpretare proprio il Démone nell’opera omonima di Rubinstein nel corso di una tournée a Odessa e Pietroburgo. Eugenio Montale scriverà: «la sua voce sembrava, ed era, eccezionale per l’ampiezza e la continuità dell’arco sonoro e per l’incredibile estensione». I laringoiatri segnalavano lo spessore delle sue corde vocali, i pubblici impazzivano per l’espansione del suo strumento nella sala. I direttori prendevano atto delle sue quasi due ottave e mezzo di estensione e della sua volontà di inondare la sala con suoni tetri e minacciosi. La carriera di questo artista cominciò nel bel mezzo di una vera Belle Époque, di una galassia di grandi baritoni: Antonio Magini Coletti, Maurice Renaud, Mario Ancona, Henri Albers, Mario Sammarco erano i nomi storici, capitanati dal re dei baritoni Mattia Battistini. Coetanei di Ruffo erano Eugenio Giraldoni, Riccardo Stracciari, Giuseppe De Luca, Dinh Gilly, Pasquale Amato. Voci chiare, limpide, eleganti, spesso sospirose. Tanto che per Battistini, il più raffinato di tutti, Massenet riscrisse la parte di Werther. Il volume, l’estensione, i colori, i ruggiti leonini di Titta Ruffo furono qualcosa di nuovo. Almeno in campo baritonale, dato che Enrico Caruso proprio in quegli anni andava stravolgendo il gusto vocale dei pubblici di tutto il mondo, virando dal registro elegante e carezzevole a colori baritonali e un’intensissima sensualità.

Nel 1905, non ancora trentenne, Ruffo a Parigi tenne testa in Fedora a due divissimi, Lina Cavalieri e appunto Caruso. Si è creato il mito di un lungo duello sugli stessi palcoscenici tra il re dei tenori e il nostro fluviale baritono. In realtà le compresenze, dopo quella Fedora, si limitarono a un Rigoletto a Vienna, un altro a Parigi insieme alla prima francese della Fanciulla del West e a un concerto; infine, nel ‘15, la prima parte di Pagliacci al Colòn e una sola recita dell’opera di Leoncavallo a Montevideo. Furono invece frequenti le apparizioni di Ruffo insieme a Chaliapin: tra il 1906 e il 1912 i due satanassi condivisero moltissime recite del Barbiere di Siviglia a Montecarlo, a Berlino, al Colòn, a Deauville, infine a Parigi: con la De Hidalgo. Inoltre cantarono insieme nel Faust, nel Don Carlo e nel Don Giovanni (il russo come istrionico Leporello).

L’idea di un’associazione teatrale Caruso-Ruffo, in realtà sporadica, fu rafforzata dalla registrazione impressionante (“ due dinosauri che vanno alla guerra”, si è detto), del duetto di OtelloO mostruosa colpa….Sì, pel ciel marmoreo”, effettuata nel gennaio ’14; disco storico se mai ve ne furono (il nostro baritono confuse la cronologia scrivendo di averlo effettuato dopo la prima guerra mondiale). Sempre all’inizio del ’14 il “Credo” di Jago fu registrato con enorme potenza vocale e moltissimi sottintesi raggelanti. Negli stessi giorni per la HMV Ruffo realizzò un’altra pagina verdiana, ma senza colleghi, cantando lui stesso le frasi di Zaccaria: è l’entrata di Nabucco, affrontata con una cavata strepitosa, con travolgente impeto barbarico e con una variazione all’acuto sull’invettiva – blasfema e se si vuole “antisemita” – “l’empia Sionne”. Tra il ’14 e il ’15 l’attività discografica del baritono pisano fu intensa e chiaramente rappresentativa delle sue doti di interprete, spaziando dalla canzone a Meyerbeer.

A Parigi nel 1905 Ruffo incise per la Pathé Frères quindici brani su cilindro, nei quali egli stesso annunciava il titolo. Il terzo è il Brindisi dell’Amleto di Ambroise Thomas, in italiano. Anticipazione del debutto, che sarebbe avvenuto a Lisbona nel 1907. Dietro la scelta c’è la cultura letteraria che Ruffo volle e seppe costruirsi fin dall’adolescenza. Il ruolo fu una sua creazione e fu sua “proprietà” fino alla fine della carriera nei più importanti teatri del mondo. Nel 1906 passò alla HMV registrando fino al ’12 cinquantatré brani – sempre acustici – che danno la misura dell’onnipotenza della sua voce. Che è massicciamente immascherata, il timbro è immediatamente riconoscibile, inconfondibile e la personalità viene fuori in modo impressionante; e c’è un’incontenibile energia di accento. L’ascolto delle sue registrazioni dell'Africana, di Rigoletto, della Forza del destino, per citare quelle che restano maggiormente impresse, è da raccomandare per chi volesse al giorno d’oggi farsi un’idea di che cosa fosse una voce torrenziale, con centri poderosi e acuti svettanti, alla quale è applicata la vera scuola antica; sulla quale nessun effetto di fraseggio e di colorito che possa realizzare il personaggio viene risparmiato.

Nel 1907 Titta Ruffo si sposò. Nacquero due figli, Titta Ruffo Jr. e Velia.

Essere interpreti e attori divenne più importante che essere solo cantanti; nell’11 Ruffo registrò anche due brani dell’Amletodi Shakespeare nella traduzione di Giulio Càrcano: l'Apparizione dello spettro ed “Essere o non essere”. Il critico Eugenio Gara rivelò che a Buenos Aires Titta Ruffo aveva recitato con la compagnia di Gustavo Salvini «intorno al 1908». Posso precisare che fu nel ’15 e il ruolo fu Anfione nella tragedia Anfione e Zeto dello stesso Salvini. In quell’anno fu pubblicato a Buenos Aires il primo libro su di lui, Titta Ruffo: Notas de psicologia artistica, scritto sull’onda dell’entusiasmo che le sue interpretazioni destavano in Sudamerica. Persiste in Argentina la leggenda che il mitico Carlos Gardel, chitarrista, cantante e compositore, abbia ricevuto lezioni di canto da Titta Ruffo quando era bambino. Ma per conoscere il baritono italiano nel camerino del Teatro Colòn di Buenos Aires, essendo Gardel nato tra il 1887 e il 1890, doveva essere quasi ventenne quando Ruffo debuttò su quel palcoscenico.

Non è strano che Ruffo sia stato sempre imitato. È uno strumento così simile ai ruggiti dei leoni da modificare per molti decenni l’estetica delle voci operistiche maschili. Grave colpa, secondo alcuni suoi contemporanei e secondo Rodolfo Celletti, che negli anni Settanta creò i termini “tittaruffismo” e “scuola del muggito” per lui e per i suoi numerosi imitatori: Gino Bechi, Tito Gobbi, Ettore Bastianini, Piero Cappuccilli e tanti altri. Celletti non faceva che recuperare le perplessità e il dissenso di tutti quegli appassionati di canto che fra il 1880 e il 1920 videro l’estetica del Romanticismo soppiantata dall’avvento del Verismo. Chi ne fu entusiasta, chi si indignava per il definitivo tramonto del belcanto. Inoltre, un conto è essere un interprete verista storico tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale; altro è imitare quello stile nella seconda metà del Novecento

Tornato a incidere dischi per la Victor tra il ’21 e il ’23, Ruffo manifestò segni di stanchezza vocale, senza tuttavia alterare le carateristiche timbriche e di temperamento.Nel ’22 l’arrivo di Titta Ruffo al Metropolitan - ma si era già fatto apprezzare a New York in altri teatri - permise al direttore artistico Gatti Casazza di portare finalmente sulle scene newyorkesi l’Ernani. La coppia Rosa Ponselle-Titta Ruffo richiamò folle di spettatori, oltre che in Ernani, in Andrea Chénier, Gioconda e Aida. «Era ancora in gran parte come negli anni d’oro», ricordava il grande soprano, «ma lo squillo era venuto meno, a volte certe note erano un po’ vuote. Però il timbro, il colore della sua voce non erano cambiati. Era un musicista stupendo…» Quindi aggiungeva un pettegolezzo che a New York era diffuso: «Aveva una storia con questa francese, Yvonne D’Arle, il che non lo aiutava. Era molto carina [La D’Arle, 1898-1977, francese americanizzata, veniva dal cabaret e cantò al Met tra il ’21 e il ‘25]… Lui era un uomo molto sexy, aveva un sacco di ragazze». L’intervistatore disse di avere saputo che forse tra Ruffo e la Ponselle ci fu un interesse reciproco. Ma lei si avvalse della facoltà di non rispondere. Nella sua autobiografia Rosa aggiungeva «Era una persona seria. In palcoscenico avevamo una buona intesa, eravamo assolutamente compatibili come interpreti». E a distanza di mezzo secolo si emozionava ricordando le ovazioni squassanti che il pubblico tributava a Ruffo, per un quarto d’ora, dopo “Nemico della patria” (riguardo alle recite di Ruffo, tutti i cronisti di New York parlano di pubblici frenetici come per quelle di Caruso). La Ponselle affermò anche che Ruffo era spesso deluso dal fatto che aveva una splendida mezza voce, ma il pubblico voleva solo i suoi forte.

Il 17 dicembre del ‘26 la discografia di questo artista ebbe un’appendice importante, tre duetti con Beniamino Gigli, dalla Gioconda, La bohéme e La forza del destino. Tenore ai vertici della tecnica, baritono ormai comprensibilmente stanco, ma l’incontro è emozionante. L’ultimo titolo interpretato da Titto Ruffo in scena fu una Tosca al Colòn nel giugno 1931 con Giuseppina Cobelli e Georges Thill; l’ultima presenza in scena una selezione di Amleto al Casino di Nizza, il 10 marzo 1934. Rientrato prima a Bordighera e poi a Firenze, Ruffo non cessò di essere perseguitato dal fascismo e persino per breve tempo arrestato. Dopo l'omicidio del cognato e amico non si esibì più in Italia. Il giorno della caduta del regime, nel ’43, il vecchio indomito spalancò la finestra e cantò la Marsigliese; immagino con lo stesso gusto con cui la intonava Fjodor Chaliapin in un acustico Preiserdel 1911.

Segnalo che di recente una tesi di laurea sui rapporti tra Giacomo Matteotti e la musica, della giovane musicologa cinese Du Yuqi, è stata discussa al Conservatorio di Rovigo. Ne è relatore il Prof. Raffaele Deluca. Il testo approfondisce anche la campagna persecutoria di cui fu vittima Titta Ruffo in Italia dopo il 1924. In particolare questa tesi cita l’ignobile Il pensiero latino – organo settimanale fascista per l’unione franco-italiana e dei popoli latini, fondato a Nizza nel 1925, che più volte definì Ruffo traditore e peggio. Il foglio si occupava volentieri della «cloaca dei fuoriuscit»”; nell’agosto 1926 coprì di insulti irripetibili un altro socialista toscano, Alceste De Ambris, reo di avere pubblicato a Tolosa il libro Matteotti: Fatti e Documenti. In quelle settimane il cognato di Matteotti interpretava a Rio de Janeiro l’Amletocon Ezio Pinza, direttore Gino Marinuzzi, e una Toscacon Claudia Muzio e Giacomo Lauri Volpi. Proprio un’altra cultura.