Il Moro e l'Alfiere: voci dal passato

 di Roberta Pedrotti

 

Fra le opere verdiane, Otello è l'unica della quale si possano ascoltare degli estratti di ben due dei primi interpreti assoluti (parziale eccezione fatta per il "Quand'ero paggio" dal Falstaff inciso sempre da Maurel). Caso ancor più significativo se si pensa che in quest'occasione soprattutto Verdi non scrisse l'opera pensando inizialmentea voci specifiche, anzi, nemmeno pensando concretamente a una futura messinscena, bensì plasmando poi con prove estenuanti esecutori accuratamente selezionati e riservandosi sempre di ritirare la partitura e annullare il debutto. Dunque ci troviamo di fronte ai cantanti che forse più di tutti nella storia hanno lavorato con Verdi sulle rispettive parti, che, salvo poche eccezioni (una di queste la frase “Quella vil cortigiana ch'è la sposa di Otello” riscritta per meglio adattarsi ai mezzi di Tamagno con esiti peraltro assai più incisivi rispetto alla prima stesura), non erano pensate per le loro voci ma solo per realizzare un ideale drammaturgico musicale. Si trovavano, insomma, in una condizione affatto simile a quella dei loro successori, interpreti più che co-creatori, solo con il vantaggio di poter lavorare con il demiurgo compositore.

Oramai, anche grazie a Youtube, un vastissimo patrimonio di registrazioni anche pionieristiche è a disposizione dell'appassionato, anche se non sempre in qualità di riversamento e ascolto ottimali, oltre che corredate da un apparato che ne renda più criticamente consapevole la fruizione. In quest'occasione facciamo riferimento a un doppio CD pubblicato dalla Casa della Musica di Parma e distribuito da Emi che, proponendo con i primi interpreti altri storici approcci ai due protagonisti maschili dell'Otello, offre riversamenti realizzati ad arte e ben descritti nelle note introduttive.

Infatti, ascoltando Francesco Tamagno e Victor Maurel, così come tutte le voci antiche, urge premettere qualche considerazione di ordine tecnico sulle incisioni.

Fino al 1925 troviamo, in questa raccolta, registrazioni acustiche (la vibrazione impressa dalla voce a una membrana determinava direttamente l'incisione del disco o del cilindro), dopodiché vengono soppiantate da quelle elettriche (nasce il microfono, che converte le onde sonore in impulsi elettrici da cui dipenderà l'incisione). Posto che non è possibile definire a priori una registrazione migliore o più fedele di un'altra senza considerare variabili come la qualità originaria dell'incisione, la conservazione del supporto, la qualità e l'appropriatezza dei mezzi di riproduzione e riversamento, la consapevolezza tecnica dei responsabili di ciascuna di queste fasi, la tecnologia elettrica è oggettivamente più evoluta e permette una ripresa sonora più minuziosa limitando al massimo i disturbi. Basti dire che la componente meccanica dell'incisione acustica è più vincolante ed esige spazi ristretti, non solo con l'effetto collaterale di un maggiore disturbo (fruscio, eco, rumori di fondo), ma anche di costringere cantanti formatisi per gli spazi teatrali a esibirsi in piccole sale, in condizioni affatto differenti. Gli impulsi elettrici, a differenza del vibrare di una membrana, possono viaggiare su distanze maggiori, permettono l'utilizzo di cavi, permettono di raccogliere la voce in spazi più ampi, a maggior distanza, in una parola, con maggior versatilità e potenziale fedeltà. Non per nulla, con l'estinzione dell'incisione acustica, il principio di quella elettrica si è poi mantenuto alla base della tecnologia moderna. Ovviamente le registrazioni di cui disponiamo, al netto di tutte le variabili di cui sopra, rappresentano per lo più, nel caso acustico, una tecnologia ampiamente collaudata e perfezionata al fianco dei primi tentativi elettrici, che quindi potrebbero non affermare subito la loro superiorità.

Conta poi, moltissimo, la cura nella ripresa e nell'eventuale riversamento, ché soprattutto nei primissimi tempi i parametri (movimento orizzontale o verticale della puntina, numero di giri al minuto) non erano standardizzati e anche con un apparecchio d'epoca non è detto si possa avere una riproduzione attendibile, con conseguenti alterazioni sia per quanto concerne la velocità, l'intonazione, la tonalità, lo stesso timbro (spesso le voci ci paiono più chiare e leggere di quanto un ascolto attento e una ripresa accurata non facciano meglio intendere, senza considerare l'alleggerimento dell'emissione quasi imposto dalle tecniche più primitive).

Muovendoci con la dovuta prudenza fra questi reperti possiamo ricavare moltissime informazioni di estrema utilità, sempre tenendo conto dei limiti dell'ascolto e dell'età non più verdissima di Maurel e Tamagno soprattutto, nonché di alcuni elementi che fanno parte del gusto anche attoriale dell'epoca, con, per esempio, la tendenza a portamenti e a scindere i gruppi consonantici nasale+dentale.

Otello

Jago

Sì. Pel ciel

Il CD (con ascolti)


Tamagno e i suo successori

Tamagno, per disciplina musicale, ispirò molti dubbi in Verdi al momento della scelta e durante la preparazione, e se in buona parte i timori furono dissipati, fu sempre opinione del Maestro che il lirismo dolcissimo e il fraseggio mobile del duetto d'amore, così come quello doloroso della morte non gli fossero ben congeniali. Opinione, peraltro, tacitamente confermata dallo stesso Tamagno, che preferì sempre includere nei propri concerti l'imperiosità dell'”Esultate” e lo slancio di “Ora e per sempre addio”, cavalli di battaglia che smentirebbero decisamente chi, parlando del tenore torinese, lo contrappone a quella che oggi intendiamo per vocalità drammatica. Tamagno, è risaputo dalle cronache e confermato dal repertorio, fu a tutti gli effetti un tenore eroico, di sonorità tanto poderosa da esser paragonato a un cannone. Ovvio che tali caratteristiche possano facilmente venir frustrate da una registrazione acustica realizzata in tarda età e condizioni di salute non ottimali, ma resta chiaro che l'impostazione della voce fosse saldamente radicata nell'aurea tradizione del belcanto all'italiana, tutta sul fiato. E, dall'ascolto delle fonti anche più antiche, è altrettanto chiaro che la principale discriminante per un Otello convincente non sia quella di una voce più o meno scura, quanto di una voce e di una musicalità più o meno buone e incisive.

Esultate

I pochi versi dell'”Esultate”, già, ispirano molte osservazioni interessanti. Tamagno, come abbiamo detto in condizioni non ottimali, non appare maestro del legato – cosa che, effettivamente, gli venne imputata, anche se le caratteristiche di molti suoi cavalli di battaglia e relative cronache sembrano smentire ogni spigolosità – ma l'incisività dell'accento e la posizione del suono sempre alta e penetrante sono evidenti. L'acciaccatura sulla U di “uragano”, si3-la3, è resa nitidamente con un sol#3-si3-la3 che ribatte il sol#3 croma sulla E di “vinse”, evidente retaggio della prassi esecutiva ottocentesca (e dunque ben presente a Verdi) seguita ancora dagli Otelli più antichi, sfumandosi via via non solo in uno staccato sempre più netto fra “vinse” e “l'uragano”, ma anche in una resa sempre meno scandita dell'acciaccatura si3-la3 fino a scomparire o a trasformarsi in un piccolo portamento. Al di là della prassi esecutiva relativa all'acciaccatura, che si riconduce alla corretta interpretazione di un abbellimento, è da notare anche la libertà di Bernardo De Muro nell'anticipare a “del ciel” la salita al sol#3 di “è gloria” in modo da esibire una maggiore espansione in acuto. Un arbitrio di solfeggio lontano dal gusto moderno funzionale alla personalità dell'interprete, ma che altera la ponderata esattezza della scansione metrica verdiana e gli equilibri che permangono, comunque, anche in altre esecuzioni antiche non troppo precise. Parimenti si nota qualche portamento in più e la tendenza ad allargare quella prima E di “Esultate” che Verdi vuole Forte sul terzo tempo della misura in 4/4, a marcare l'energia dell'attacco ma non con una stasi perentoria e tribunizia, bensì con uno slancio propulsivo che s'irradia nell'intera frase. Tamagno non allarga questo suono centrale, sol#2, ma lo marca con giusto equilibrio anche nell'emissione, equilibrio che non troviamo altrettanto calibrato in De Muro né in O'Sullivan, un buon Otello che pare però sacrificare squillo all'ampiezza dei centri e dei gravi (impressione invero curiosa se destata in registrazione da un cantante che in teatro era famoso per i Si e i Do acuti!). Da questo punto di vista è già da censurare quel che s'intende di Renato Zanelli, ossia un canto di forza assai spinto.

Lauri Volpi è il primo, in questa raccolta, a eseguire l'acciaccatura su “uragano” senza ribattere e includere il sol#3 nel gruppetto, segno che i tempi sono cambiati e che quella tradizione esecutiva si è persa. Non così la tecnica, perfetta nell'emissione alta, sul fiato, penetrante, che gli permette d'essere saettante in alto, anche se meno saldo in basso (anche lui, a quarantanove anni, non era più nel fiore dell'età, benché abbia continuato a saettare acuti senza problemi, se non d'intonazione, ancora per qualche decennio), scarto tanto più evidente se si pensa che l'incisione elettrica coglie meglio gli armonici inferiori e i suoni gravi di quanto non facessero le registrazioni che ci hanno restituito, con ogni probabilità, il timbro di Tamagno e coevi più chiaro di quanto non fosse. L'accento è più pomposo e retorico, l'intonazione non sempre precisissima, caratteristiche note del tenore dei Castelli Romani. D'altra parte, abbiamo detto, le oscillazioni d'intonazione, come le imprecisioni di solfeggio, devono essere valutate con cautela nel caso delle registrazioni più antiche e possiamo estendere la licenza anche a questa elettrica del 1941, se non altro perché Lauri Volpi si potrebbe considerare idealmente come l'ultimo dei tenori ottocenteschi e i suoi noti difetti non pregiudicano l'interesse e l'importanza dei pregi.

La carrellata di “Esultate” si chiude con Del Monaco, certo libero di espremersi in compiaciute e retoriche corone, che convincono e si giustificano da sé comunque più delle variazioni di De Muro. La forza di Del Monaco è subito nel non scurire e allargare troppo il sol#2, senza lasciarsi influenzare troppo dal Forte prescritto e senza cedere alla tentazione che aveva insidiato altri prima di lui. Non si può, però, dire si ponga direttamente sulla scia di Tamagno, come invece fa Lauri Volpi, rinunciando a uno spessore e a un colore che sono la sua prerogativa, ma è evidente che la prerogativa sia naturale, non ricercata a discapito dell'emissione (e questo con buona pace di chi identifica la scuola di Melocchi e la tecnica di Del Monaco semplicemente con un affondo opposto alla posizione alta di un suono che galleggi sul fiato). Molto dello stile ottocentesco sembra perduto, resta l'idea di un eroismo che i tempi esprimono con diversa aulicità. L'interpretazione di Del Monaco ha una precisa, sacrosanta attualità nella sua epoca (la registrazione è del 1951), il canto eccellente per impostazione, senza forzature o camuffamenti.

Anche ascoltando gli altri brani si confermano le impressioni destate dalle diverse letture dell'”Esultate”.

Ora e per sempre addio

“Ora e per sempre addio” registrato da Tamagno nella sua villa di Spedaletti nel 1903 appare oggi di una lentezza estenuante, ancor più stupefacente per chi facesse regola assoluta nella necessità di economizzare al massimo, con tagli e arbitri ritmici, sullo spazio disponibile in dischi e cilindri. Considerare, però, questo tempo “verdiano” in virtù dello studio minuzioso ai limiti dell'esasperante che il compositore impose al suo interprete, al ben noto perfezionismo in sede di prove, sarebbe un clamoroso errore, attestato per esempio dall'aneddoto che tramanda lo scontro fra il tenore piemontese e Toscanini proprio sui tempi da staccare nell'Otello, che Tamagno voleva decisamente rilassati: interpellato, Verdi diede ragione al maestro parmigiano, lodandone la buona memoria (Toscanini era in buca come violoncello alla prima assoluta dell'opera e aveva fatto tesoro delle indicazioni dell'Autore). Peraltro, è comunemente riconosciuta la generale propensione di Tamagno per i tempi più lenti e, fatto di “Ora e per sempre addio” un cavallo di battaglia concertistico anche più dell'”Esultate”, è facile intuire come si sia impossessato del brano derogando man mano alle indicazioni originarie. L'evidenza emerge ancor più constatando che tutti gli altri ascolti sono staccati con un tempo più mosso; si conferma la debolezza dell'Otello di Zanelli, con una tendenza a mandare indietro passagogi e acuti, facile conseguenza di un canto stroppo spinto, mentre desta interesse Léon Escalaïs, che, in francese, accenta con l'incisiva nobiltà propria della tradizione grandoperistica che tanto influsso ha avuto sulla scuola tenorile eroica del tardo Ottocento. Anche il corso César Vezzani ribadisce, pur qualche tensione e imprecisione musicale, l'interesse stilistico dell'Otello alla francese. Fra gli altri, si nota come Icilio Calleja, pur avendo frequentato anche repertorio baritonale, mostri un timbro piuttosto chiaro, un canto assolutamente tenorile reso impacciato da un'eccessiva nasalizzazione. Giovanni Zenatello, l'inventore della stagione estiva all'Arena di Verona, fa intuire una voce di grande ampiezza, come una teatralità efficace per quanto un po' esteriore. Incisi nello stesso 1941, gli Addii di Lauri Volpi (classe 1892) e Martinelli (1885) mettono a confronto l'idea araldica di uno squillo argentino e un canto dal baricentro più centrale (il passaggio nel veneto suona lievemente più nasale e schiacciato), ma sempre schiettamente tenorile e radicato nella tradizione antica, sebbene il laziale risulti retoricamente più pomposo e datato del collega.

Dio! mi potevi scagliar

La difficoltà di “Dio! mi potevi scagliar” è testimoniata ancora una volta da Renato Zanelli, che semplicemente parla nella prima parte, declamando il testo, ma si rifà nel cantabile, realizzando alla perfezione il dolcissimo di “l'anima acqueto”. Il tenore, dunque, non era uno sprovveduto, ma pativa un gusto involgarito che ne pregiudicava sovente la qualità musicale e d'emissione, come dimostra il finale dell'aria: dopo averci illuso torna a essere scomposto e insufficiente. Lo stesso Aureliano Pertile, purtroppo, delude e soprattutto nella conclusione crolla, attacca con bell'accento, perfetto, ma poi non riesce ad addolcire, supplendo con singhiozzi e cadute in un verismo impacciato e fuori luogo.

Colpisce, di contro, Escalaïs, il migliore per senso del testo, per contegno espressivo e musicalità.

Niun mi tema

Verdi dedicò cure maniacali al finale dell'opera e l'ascolto del “Niun mi tema” di Tamagno avrebbe potuto rivelarsi prezioso per cogliere le indicazioni dell'Autore e qualche sfumatura non scritta. Ma se il tenore non sembra curarsi troppo del pp su “Or morendo”, è legittimo intendere la sua lettura come libera e personalizzata nel tempo, in ogni caso davvero commuovente per la passione infusa a pochi mesi dalla morte. Quasi un presagio, un testamento ideale.

In una rosa di voci di estrazione affatto diversa che risolvono la pagina magari con qualche arbitrio ritmico, ma con esiti interessanti, soprattutto per la dignità dolente conferita al personaggio da Giovan Battista De Negri, che raccolse il testimone di Tamagno. Non è da trascurare nemmeno Giuseppe Oxilia, che pure giovanissimo fu fra i primi a sostituire il creatore con il disappunto di Verdi, che non ne vedeva di buon occhio l'inesperienza. Più arbitrario e impulsivo Antonio Paoli, mentre notevolissimo, nonostante le diffuse libertà ritmiche e qualche impaccio nell'accentazione dell'italiano, è l'Otello di Leo Slezak, altro modello esemplare dell'idea ottocentesca di tenore eroico. Renato Zanelli ribadisce, d'altra parte, i limiti del gusto con un “Pria d'ucciderti” verista nel peggior senso del termine: voce gonfia e soffocata, rantoli eccessivi anche in un contesto storico nel quale non rappresentano certo un'eccezione. Francesco Merli è il riconosciuto campione del nuovo tenore drammatico, il passaggio all'acuto è più coperto, concettualmente non sembra più contemplare le categorie del “colore chiaro” e “colore scuro” codificate negli scritti tecnici del Garçia, ma ricercare una brunitura omogenea, gestita nel suo caso a meraviglia. Le ultime battute, è vero, integrano nel canto un realismo estraneo alla concezione ottocentesca dei primissimi Otelli, ma non paiono mai, come invece in Zanelli, giustapposte alla linea musicale, né comportano cedimenti tecnici e vocali. D'altra parte, il duetto “Già nella notte densa” proposto integralmente conferma la grandezza leggendaria, anche nei passi più lirici, di un tenore che ha avuto il torto di avere fra i suoi epigoni troppi cantanti portati a spingere senz'arte.


Jago: Maurel e non solo

Victor Maurel fu grande interprete di certo, primo Falstaff e primo Boccanegra nella seconda versione dell'opera, ma anche uomo e collega decisamente poco gradevole se anche quel bonaccione di Tamagno si univa a coloro che lo consideravano uno Jago perfetto in tutto e per tutto, dentro e fuori scena. Di lui resta, purtroppo, solo il Sogno “Era la notte, Cassio dormiva”, che tuttavia rappresenta anche la pagina più interessante da analizzare per la minuzia d'indicazioni disseminate da Verdi. Il Credo può maggiormente risentire, nel bene e nel male, del gusto di un'epoca, della personalità dell'interprete, con variabili comunque non indifferenti fra letture più asciutte e più torve, più retoriche e tronfie o più sibilanti, sulla sottolineatura di questo o quel verso. Certo, non si assiste a eccessi grandguignoleschi, bensì a libertà più o meno marcate soprattutto a livello ritmico e metrico, come dimostra Eugenio Giraldoni, il primo Scarpia, che plasma talora a suo piacimento accenti e durate, ma con un'indubbia finezza teatrale. Pasquale Amato è più preciso, pur col la tendenza, assai diffusa, ad anticipare lo Stringendo poco a poco di “E credo l'uom” già a “che tutto in lui è bugiardo”; è anche il primo, fra gli esempi proposti, a inserire la risata finale. Titta Ruffo è ancora, e ancor più, attento al tempo, ma non rinuncia a corone anche arbitrarie (quanto è più esteriore e meno incisiva quella sull'ultima sillaba di “sacrificio” che Verdi vorrebbe croma puntata e semicroma dopo la minima della penultima sillaba!) appiattisce leggermente le dinamiche (in particolare lo scarto fra la f di “Credo con fermo cuor” e le ppp di “Siccome crede la vedovella”, praticamente annullato); interessante come rende la salita al Fa di “iniqua sorte”, allungando la seconda I, evidentemente più comoda, con un effetto quasi di appoggiatura Mib-Fa, o, meglio, di portamento, se vogliamo vedere nella diffusione di quest'ultimo nel gusto verista anche una semplificazione di appoggiature e acciaccature della prassi belcantista. Questo portamento è ripreso da Galeffi, che dà alla “vedovella al tempio” un incedere un po' troppo piagnucoloso e opta per una corona finale che lascia spazio solo a un breve ghigno. Sulla stessa linea si pone Viglione Borghese, meno vario dinamicamente, che rinuncia completamente alla risata finale sostituendola però con una corona decisamente prolissa. Corona e risata si trovano, invece, nell'incisione di Giuseppe Danise, il più retorico e datato nel fraseggio, ma comunque assai impegnato nel dare a suo modo un'anima al pezzo, anche sforzandosi di dare accenti e chiaroscuri.

Per quel che concerne il Brindisi potremmo notare il tempo rilassato di un Amato la chiarezza di superiore dicitore di Stabile e una certa qual pesantezza nell'intenzione verdiana di Manfred Gurlitt sul podio di un'edizione in tedesco con il baritono Heinrich Schlusnus. La miriade di indicazioni verdiane (terzine, abbellimenti, punti, legature, chiodi, mezzavoce, pp, ff, mf ecc) non si palesano sempre nettissime nella realizzazione, specie nel caso di Pasquale Amato e Riccardo Stracciari, che nel 1925 spiana il trillo sul Fa# del primo “strambo”; decisamente più attendibili Gurlitt e Stabile, per timbro e musicalità possibile erede, almeno in parte, di Maurel.

Era la notte, Cassio dormia

E di Maurel, come dicevamo, abbiamo il Sogno, nel quale i confronto con tutti i suoi successori è impressionante. Il baritono francese, a cinquantasei anni non è al massimo della forma, non sembra particolarmente a suo agio di fronte al cono in cui si doveva cantare per incidere acusticamente, tuttavia un orecchio attento può cogliere l'ampiezza e la brunitura naturale della voce, limpida perché idealmente sostenuta sul fiato, benché in questo caso e l'età e la situazione giochino presumibilmente qualche scherzo al controllo del sostegno. La posizione, però, è sempre alta, impeccabile. Questa non è una semplice constatazione vociologica, ma è il riconoscimento dello strumento esattamente richiesto da questa pagina in cui pullulano indicazioni di legatura, chiodi, forcelle, prescrizioni di Sotto voce, parlante, legato e strisciando ancora, sempre sottovoce, cupo, tutto in un ambito dinamico che dall'iperbolico ppppppp di “Seguia più vago” si spinge solo a un mf per “in cieco letargo”. Impressiona come Maurel differenzi esattamente la voce melliflua del sussurro di Jago e quella onirica delle frasi di Cassio, che non possono non richiamare alla mente le maniacali indicazione di Verdi a Marianna Barbieri Nini per il Sonnambulismo di Lady Macbeth, da cantarsi quasi senza muover le labbra, in modo pressoché astratto. Non lascia indifferenti il senso del legato fra “cauti vegliamo” e “L'estasi del ciel” ed è da notare l'appoggiatura sulla seconda A di “accanto”, non scritta negli spartiti a mia disposizione (e sostanzialmente disattesa dai posteri) ma simmetrica a quelle prescritte su “Incanto” e “sogno ardente”. Maurel, dopo aver attaccato “Seguia più vago” esattamente come scritto (un autentico miracolo) realizza la forcella del più animato corrispondente fino a una calibrata sottolineatura su “Quasi baciando”, dando intenzione senza tradire comunque l'assenza di indicazioni specifiche verdiane su queste parole. Purtroppo la sua lezione sembra restare isolata e non solo in tutti gli altri esempi il legato è meno puro, ma si trovano anche indicazioni ritmiche, metriche espressive ignorate se non addirittura ribaltate. Il punto chiave dove i baritoni tendono ad allargare gigioneggiando e, talora, sporcando il suono è proprio il “quasi baciando”. Perfino Battistini delude in questo passo, pur cercando di essere più misurato e insinuante, ma attaccando “Seguia più vago” senz'ombra di sottigliezza dinamica. Si fa, allora, preferire Titta Ruffo, che comprende il senso del crescendo in quel punto, attaccando da un onorevolissimo, anche se non impalpabile, piano per chiudere raccogliendo non senza malizia il suono prima allargato in “Quasi baciando”. Oppure Stracciari, che compensa anch'egli un legato non paragonabile con quello di Maurel con un'arte del dire la parola scenica che il tempo non scalfisce.


Sì. Pel ciel marmoreo giuro

La raccolta si chiude con cinque strette del finale secondo. “Sì. Pel ciel marmoreo giuro”. Zenatello e Amato staccano un tempo particolarmente lento anche per l'indicazione Molto sostenuto e solenne prescritta da Verdi, che mai, comunque consente di stringere come tendono a fare, nelle ultime battute, troppi direttori. L'incedere degli altri esempi appare, invece, più omogeneo e meno stentato.

Ascoltando nel 1914 Enrico Caruso e Titta Ruffo si capisce chiaramente perché questi due cantanti hanno segnato un punto di svolta nella storia delle rispettive vocalità: in nessun'altra registrazione acustica le voci sono rese così scure e corpose al centro, modellate, insomma, su un'estetica che non è più quella ottocentesca, che intende la drammaticità con un accento più sanguigno, con colori più foschi e carnosi, perseguendo l'ideale di forza e omogeneità. Tale forza dal punto di vista interpretativo si traduce, invero, più che in un giuramento, per quanto fosco, in una sfida. Lo stesso senso di tempestoso duetto vocale s'intende in quella che sembra una risposta a distanza incisa dal battagliero Lauri Volpi con un baritono chiaro come Mario Basiola: nel 1941 un'affermazione delle radici ottocentesche dopo il sorgere di una diversa estetica del canto. Estetica che, però, abbiamo visto non potersi contrapporre con assoluta nettezza e certi confini anche cronologici a quella belcantista. Gli elementi si compenetrano, le tendenze si confrontano contemporaneamente e si mescolano, con esiti più o meno convincenti su ogni fronte e nelle posizioni intermedie. La discriminante si conferma quella che abbiamo annunciato in principio: la bontà della tecnica, della musicalità, dell'interpretazione. Buone e cattive allora come oggi, ciascuna nel proprio tempo, dal proprio tempo condizionata ma in grado di parlare, di offrire spunti, dare lezioni ma anche di mostrare errori da cui guardarsi ai posteri.

Lo confermano anche le altre due coppie proposte nella fatidica stretta: Nicola Fusati in registrazione pare tenore leggero e nasale, nemmeno paragonabile, qui, agli alfieri della tradizione eroica ottocentesca, mentre Stracciari, messi da parte gli impacci con la coloratura del brindisi, fa valere tutta la sua autorità drammatica, chiaro o meno che appaia il timbro. Viceversa il pur glorioso Benvenuto Franci, con un eccessivo vibrato, resta in ombra di fronte a un Pertile del 1928, che riscatta pienamente l'ascolto tardivo di “Dio mi potevi scagliare” con tutta l'autorità di uno dei massimi tenori verdiani di tutti i tempi, capace di scandire la parola, anche a costo di apparire talora forse un po' pesante al gusto moderno, l'ampiezza della frase, la saldezza dell'emissione in tutta la tessitura. Otello tenore, ma soprattutto ben cantato e attento al testo. Come deve essere.


Il CD

Otello, tenore

Esultate! (atto I, scena I)
Francesco Tamagno (1903, acc. pianoforte, reg. acustica)
Bernardo De Muro (1903, acc. orchestra, reg. acustica)
John O’Sullivan (1922, acc. orchestra, reg. acustica)
Renato Zanelli (1928, acc. orchestra, reg. elettrica)
Giacomo Lauri-Volpi (1941, acc. orchestra, reg. elettrica)
Mario Del Monaco (1951, acc. orchestra, reg. elettrica)

Già nella notte densa (atto I, scena III)
Francesco Merli, Claudia Muzio (1935, acc. orchestra, reg. elettrica)

Ora e per sempre addio (atto II, scena V)
Francesco Tamagno (1903, acc. pianoforte, reg. acustica)
Giovan Battista de Negri (1902, acc. pianoforte, reg. acustica)
Léon Escalaïs (in francese 1905 ca, acc. pianoforte, reg. acustica)
Icinio Calleja (1913, acc. pianoforte, reg. acustica)
César Vezzani (in francese, 1930, acc. orchestra, reg. elettrica )
Giovanni Zenatello (1926, acc. orchestra, reg. elettrica)
Renato Zanelli (1928, acc. orchestra, reg. elettrica)
Giacomo Lauri-Volpi (1941, acc. orchestra, reg. elettrica)
Giovanni Martinelli (1941, acc. orchestra, reg. elettrica) 

Dio! Mi potevi scagliar (atto III, scena III)
Léon Escalaïs (1905 ca, acc. pianoforte, reg. acustica)
Renato Zanelli (1928, acc. orchestra, reg. elettrica)
Aureliano Pertile (194, acc. orchestra, reg. elettrica)

Niun mi tema (atto IV, scena IV)
Francesco Tamagno (1903, acc. pianoforte, reg. acustica)
Giuseppe Oxilia (1902, acc. pianoforte, reg. acustica)
Giovan Battista de Negri (1902, acc. pianoforte, reg. acustica)
Antonio Paoli (1911, acc. orchestra, reg. acustica)
Leo Slezak (1912, acc. orchestra, reg. acustica)
Renato Zanelli (1928, acc. orchestra, reg. elettrica)
Francesco Merli (1935, acc. orchestra, reg. elettrica)


Jago, baritono

Innaffia l’ugola! (atto I, scena I)
Pasquale Amato (1909, acc. orchestra, reg. acustica)
Riccardo Stracciari (1925, acc. orchestra, reg. acustica)
Mariano Stabile (1926, acc. orchestra, reg. elettrica)
Henrich Schlusnus (in tedesco, 1937?, acc. orchestra, reg. elettrica)

Credo in un Dio crudel (atto II, scena II)
Eugenio Giraldoni (1905, acc. pianoforte, reg. acustica)
Pasquale Amato (1911, acc. orchestra, reg. acustica)
Titta Ruffo (1912, acc. orchestra, reg. acustica)
Carlo Galeffi (1916, acc. orchestra, reg. acustica)
Domenico Viglione Borghese (1925 ca., acc. orchestra, reg. elettrica)
Giuseppe Danise (1928 ca., acc. orchestra, reg. elettrica) 

Era la notte (atto II, scena V)
Victor Maurel (1904, acc. pianoforte, reg. acustica)
Eugenio Giraldoni (1905, acc. pianoforte, reg. acustica)
Mario Sammarco (1907/08, acc. orchestra, reg. acustica)
Mattia Battistini (1912, acc. orchestra, reg. acustica)
Titta Ruffo (1920, acc. orchestra, reg. acustica)
Riccardo Stracciari (1925, acc. orchestra, reg. acustica)

Sì, pel ciel marmoreo giuro! (atto II, scena V)
Giovanni Zenatello, Pasquale Amato (1909, acc. orchestra, reg. acustica)
Enrico Caruso, Titta Ruffo (1914, acc. orchestra, reg. acustica)
Nicola Fusati, Riccardo Stracciari (1928, acc. orchestra, reg. elettrica)
Aureliano Pertile, Benvenuto Franci (1928, acc. orchestra, reg. elettrica)
Giacomo Lauri Volpi, Mario Basiola (1941, acc. orchestra, reg. elettrica);