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Seconda parte: dal 1450 al 1700
Nel 2006 Bologna è stata dichiarata dall’Unesco Città Creativa della Musica: quest’arte è parte integrante della storia e della vita del capoluogo emiliano, oggi come nei secoli passati: basti pensare alle circa centocinquanta chiese che dovevano essere attive in questo senso attorno al 1700, al centinaio di organi antichi superstiti, ai numerosi palazzi gentilizi che erano soliti ospitare accademie, concerti, oratorii, opera e balli, secondo quanto attestano i libretti e le cronache del Sei-Settecento.
Dove vi sono uomini c’è anche una musica che ne racconta e accompagna la quotidianità: basti infatti pensare al fatto che il linguaggio è una delle più antiche ed immediate manifestazioni sonore. Universalità e internazionalità sono caratteristiche che rendono la musica estremamente importante per lo sviluppo della società. A Bologna, le radici di attività legate a essa sono assai remote: nella cattedrale di S. Pietro queste hanno inizio subito dopo la costruzione (XI secolo); nel 1439, papa Eugenio IV legiferò l’esistenza presso la medesima di un “magister cantus et gramaticae” ufficiale. Dallo stesso pontefice era già stata istituita, nel 1436, la rinomata Cappella Musicale di S. Petronio. Qui si celebravano le solennità con l’esecuzione di composizioni ideate per l’occasione, che sfruttavano la peculiare acustica del luogo, che è gravata da un tempo di riverbero di ben dodici secondi. Erano previsti interventi solistici, corali (inizialmente esclusivamente dei fedeli che interagivano col celebrante, poi di professionisti) e in seguito venne anche a crearsi una nutrita compagine strumentale. Nel secolo successivo, sotto il dominio pontificio, in città aumentò il numero delle chiese e delle comunità religiose, principali sedi di fruizione musicale.
Un’altra importante istituzione fu il Concerto Palatino della Signoria di Bologna, che esercitò svariate funzioni dal 1250 al 1797: proclamava dinnanzi al popolo le ordinanze governative locali, accompagnava i magistrati in occasione delle uscite pubbliche, feste religiose o civili; animava le cerimonie universitarie e svolgeva una funzione concertistica vera e propria. Cantori e strumentisti si esibivano presso il Palazzo degli Anziani Consoli in Piazza Maggiore e prendevano parte ad ogni festa del patrono e allo svolgimento delle giostre.
La città ha inoltre dato i natali a grandi personalità, tra cui ricordiamo Jacopo da Bologna: compositore del XIV secolo, fu uno dei primi e più autorevoli esponenti dell’Ars Nova, termine con cui si designa comunemente la musica profana trecentesca in Italia e in Francia, in contrapposizione alla polifonia sacra dell’epoca precedente, denominata Ars Antiqua. L’Ars Nova è caratterizzata dall’avvento di un nuovo sistema di notazione ritmico-musicale.
La musica è, ed è sempre stata, un’arte che richiede una precisa organizzazione della durata dei suoni, inizialmente tramandata oralmente. Con la riforma gregoriana del IX secolo vennero introdotti i cosiddetti “neumi”, simboli grafici che rappresentavano l’andamento della melodia, lasciando però liberi i concetti di ritmo, cioè ripetizione regolare di movimenti, e intonazione, vale a dire frequenza fondamentale del suono, la sua altezza insomma; dobbiamo i nomi delle note (Ut-Re-Mi-Fa-Sol-La-Si) e le relative intonazioni a Guido d’Arezzo, che assegnò la nomenclatura basandosi sulle sillabe iniziali dei primi sei versetti di un inno dedicato a S. Giovanni Battista. “Ut” divenne successivamente “Do”. Infine, grazie al trattato Ars Nova di Philippe de Vitry, che diede il nome a tutta un’epoca, vennero introdotte anche le idee di tempo e ritmo. Le regole del nuovo sistema mensurale, in Italia, furono esposte da Marchetto da Padova (che scrisse il trattato Pomerium in arte musice mensurate nel 1319) e si applicarono con maggiore elasticità rispetto al fenomeno francese.
In generale, risalire alle origini di iniziative musicali a Bologna è arduo a causa della scarsità di documenti. Grazie agli statuti cittadini, però, apprendiamo che esisteva un’iniziale formazione strumentale (che col tempo avrebbe dato vita al Concerto Palatino), costituita da otto pubblici ufficiali denominati “tubatores” o “bannitores”(addetti agli annunci civici, quattro a servizio del Comune e i restanti del Popolo, rifacendosi rispettivamente al Podestà e al Capitano del popolo), le cui mansioni erano disciplinate già dal 1250. Erano obbligati a presenziare, in qualità di “testes”, ai consigli generali di propria giurisdizione; la punizione per chi trasgrediva era il pagamento di una multa di 100 scudi (pari a 500 lire). Ogni banditore riceveva un compenso mensile di 5 lire.
L’accesso alla carica era subordinato ad un concorso finalizzato alla designazione di individui idonei a “bannire et trumbare”: i prescelti dovevano prestare giuramento di fedeltà, avrebbero sempre riportato esattamente il contenuto dei bandi loro affidati, facendoli conoscere a tutti, posizionandosi nei punti della città fissati negli statuti.
L’annuncio seguiva una particolare ritualità: i banditori richiamavano l’attenzione della gente con l’ausilio di squilli di “tubas bonas et sonoras”, poi leggevano a gran voce il testo del provvedimento; al termine, affiggevano anche una copia scritta del bando e passavano alla postazione successiva. Per costoro vigevano inoltre i doveri, pena l’espulsione dal servizio, di risiedere a Bologna e indossare abiti consoni mentre lavoravano.
Sin dai primi tempi, come suggerisce anche la regolare correlazione del termine “tubator” con “banitor”, alle funzioni burocratiche si aggiungevano spesso impegni prettamente ludici, di natura musicale. Leandro Alberti, nella sua Historie di Bologna, racconta che il 6 marzo 1256 fu condotto in Piazza Maggiore il Carroccio (grande carro trasportante le insegne cittadine) a suon di tromba.
Egli parla inoltre di “piffari”, tuttavia non ci risulta che dei pifferai fossero al servizio del Comune di Bologna nel Medioevo: possiamo quindi ipotizzare che si ricorresse all’occasionale ingaggio di musicisti forestieri.
Del 1250 è il documento De ellectione nuntiorum in cui troviamo una lunga lista dei luoghi in cui i banditori (definiti indifferentemente e spesso contemporaneamente “bannitores”, “tubatores”, “precones”, “trumbatores” fino al 1500 circa) dovevano affiggere i decreti; questi ricevevano sei bolognini per ogni incarico portato a termine. Il Podestà li sceglieva dopo averli uditi suonare e declamare, in quanto la loro funzione principale era richiamare l’attenzione della folla con le loro trombe e leggere le leggi; coloro che possedevano cavalli per espletare il servizio
semper debeant super equos ponere bannum pro comuni, preter quam in pallatio comunis, et in scalis pallacij et in predone, et in exercitu cum erunt prope pavalionem comunis, nec in pallatio comunis teneantur trumbas nec in scalis palacij
cioè dovevano mettere lo stemma del comune sui cavalli, ma non quando si trovavano nel palazzo o sulle scale dello stesso, né quando, in veste militare, altro incarico che dunque ricoprivano, si trovavano sotto il portico del Comune (luoghi ove non potevano nemmeno portare le trombe). Lo statuto prosegue asserendo che il banditore era obbligato ad indossare abiti consoni, approvati dal Podestà bolognese, che sul dorso recassero il blasone ufficiale:
Unum pulchrum par indumentorum debeant habere idoneum ad voluntatem Potestatis a couni Bononie, quod semper habeant in dorsum cum ponunt bannum.
In caso di necessità, il Podestà e la Curia eleggevano dei “trumbatores” che affiggessero i bandi in tempo di guerra. Questi erano pagati con 10 lire (quelli che avevano anche un cavallo ne ricevevano 20). Interessante è anche lo statuto, datato 1259, De nuncijs Ancianorum et vestibus atque feudo: gli Anziani, che occupavano la più autorevole delle cariche, avevano 4 “nunzios” al loro servizio, due dei quali erano suonatori di tromba. Ivi si fa anche menzione del ruolo di legati che talvolta ricoprivano, ausiliati da destrieri: dovevano sottostare alle stesse regole degli altri banditori e i “tubatores” provvisti di cavallo ricevevano un salario di 20 lire, gli altri solo di 10.
Individuiamo l’inizio della documentazione concernente codesta realtà in un manoscritto inedito del 1399, ove si parla di otto “tubatores”, tre “piffari” e un “nacharinus” al servizio degli Anziani. La nuova funzione del complesso, i cui componenti divennero membri a titolo privilegiato della famiglia Palatina già a partire dall’anno 1400 (anche se l’identificazione col nome Concerto Palatino della Signoria di Bologna è successiva), era esclusivamente musicale: a questi musici veniva assegnato un mandato che consentiva loro di accompagnare le uscite pubbliche dei magistrati.
I musicanti dovevano indossare specifiche uniformi nei giorni di festa e nei cortei. I violatori erano puniti con pene pecuniarie o addirittura con l’espulsione dal servizio. Nell’arco dei primi decenni del XV secolo il numero dei trombettieri si ridusse a cinque (come testimoniato dagli Organici annuali). In compenso aumentò la varietà degli strumenti con l’annessione di un di liuto.
Dal 1439 in poi abbiamo la quasi totale scomparsa dei mandati di pagamento, il che assottiglia il numero di fonti cui possiamo rifarci per indagare il fenomeno. Gli Anziani, con una delibera datata 1469, affidarono a Bartolomeo Giuliani il ruolo di primo trombone. Si giunse così all’organico definitivo, che vantava anche un arpista. Il decreto del 1472, invece, sancì l’assunzione a pieno titolo presso la Corte Palatina. Le esibizioni si tenevano sul balcone del Palazzo degli Anziani. La vera e propria nascita del Concerto Palatino risale alla seconda metà del XVI secolo.
Fondamentale punto di riferimento per gli autori successivi, egli è celebre soprattutto per i suoi madrigali e le numerose cacce (un tipo particolare di madrigale che dipinge scene, appunto, di caccia, pesca o mercato e in cui ogni voce, per così dire, rincorre l’altra). Nel quattrocentesco Codice di Faenza compaiono le rielaborazioni strumentali di cinque madrigali di Jacopo da Bologna, a riprova dell’importanza della sua musica per i posteri.
Fu uno dei primi a comporre brani polifonici su testo in volgare e a lui si deve, inoltre, lo storico primato di aver concepito un madrigale a tre voci. Un’altra curiosità: Non al suo amante, madrigale scritto da Jacopo intorno al 1350, è l’unica composizione conosciuta su testo di Francesco Petrarca di quell’epoca, il quale accosta l’immagine di Diana a quella dell’adorata Laura e identifica se stesso con Atteone, fremente d’amore per la dea.
Ventotto suoi lavori si trovano nel Codice Squarcialupi, grande collezione di opere musicali del XIV secolo, oggi conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana a Firenze, già proprietà dell’organista Antonio Squarcialupi, poi appartenuto ai Medici. Portò il suo genio anche a Padova, nella Verona degli Scaligeri e a Milano, presso la Corte dei Visconti.
Ben poco si conosce della sua vita: alcune date, luoghi e personaggi sono deducibili, altri sono esplicitamente citati in alcune composizioni di tipo celebrativo. Ad esempio, il 1346 è un anno da indicare con sicurezza, poiché viene riportato nel madrigale O in Italia felice Liguria, che esalta i successi della politica viscontea nei confronti di Genova e Parma e la nascita dei due figli gemelli di Luchino; risaputa era poi la passione che il signore milanese nutriva per l’arte venatoria, tema cui l’artista dedicò ad esempio la caccia Per sparverare tolsi el mio sparvero. A questo punto, possiamo far coincidere la permanenza di Jacopo a Milano con la decennale signoria di Luchino Visconti (dal 1339 al 1349, anno in cui morì, forse avvelenato dalla terza moglie Isabella Fieschi), ed è opinione corrente che il soggiorno veronese sia successivo a quello ambrosiano. Nei testi del mottetto Lux purpurata radiis, diligite iustitiam e del madrigale Lo lume vostro, dolce mio segnore si cela il nome di Luchino in acrostico. Il primo brano si rivolge anche al fratello Giovanni, arcivescovo di Milano, e le parole del secondo alludono sia ad Isabella che a una congiura di palazzo, scoperta ed esemplarmente punita nel 1341, guidata da Francescolo Pusterla.
Non ci è nota l’esatta data di nascita di Jacopo, ma, in assenza di dati riconducibili a prima degli anni Quaranta del Trecento, essa sarà da porre tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo. Oltre alle origini bolognesi evocate dal toponimo, sappiamo che trascorse un significativo periodo di formazione nella sua città, ove fra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, è testimoniata la circolazione di composizioni polifoniche attribuite a lui. Scrisse anche un trattato di teoria musicale, L’arte del discanto misurato.
In ultimo, è importante dire che fu egli ad elaborare le regole e le tecniche per comporre ed eseguire il repertorio polifonico di cui era esperto: centrali erano l’eleganza armonico-ritmica e la linearità delle melodie, proprie di tutte le sue composizioni; Jacopo sosteneva che la polifonia dovesse essere, tra le altre cose, “soave e dolce”, in antitesi all’uso abituale del “gridar forte”. L’analisi del suo operato non ci restituisce nulla dopo il 1360. Il nome Jacopo da Bologna è citato anche in documenti successivi, tuttavia non possiamo affermare con certezza di non essere dinnanzi a un caso di mera omonimia.
Dopo la sua fondazione, voluta da Eugenio IV, che emanò una bolla nel 1436, la Cappella Musicale di S. Petronio si affermò nel giro di un secolo come una delle principali istituzioni felsinee. Collaborò spesso col Concerto Palatino, la cui sede era geograficamente vicina alla Basilica; essi rappresentano i due organismi musicali meglio organizzati e più prestigiosi del Medioevo bolognese. Inoltre, entrambi erano economicamente subordinati alla Signoria cittadina.
Questo dualismo, però, non fu sempre caratterizzato da una pacifica armonia, tutt’altro: spesso portò ad attriti per l’egemonia.
Le fonti stipendiali sono fondamentali per ricavare notizie attinenti all’argomento in esame; purtroppo, quelle risalenti ai primi decenni successivi alla fondazione della Cappella Musicale sono incomplete. Successivamente (precisamente all’inizio del XVI secolo) ci imbattiamo invece in esempi di zelante metodicità. Nel 1436 era già presente un nucleo vocale, costituito da ventiquattro chierici e alcuni cappellani. Era inoltre presente una scuola musicale, detenuta dal maestro del coro. Col passare del tempo si ricorse a coristi professionisti, che all’inizio semplicemente sostenevano il complesso originario, poi sostituirono definitivamente i cappellani, ma non i chierici.
Ulteriori fonti storiche di grande rilevanza sono le cosiddette suppliche di musicisti alla Fabbriceria (ente che provvede alla conservazione e mantenimento dei beni dei luoghi sacri) di S. Petronio: trattasi di istanze scritte con cui essi richiedevano all’Assunteria una concessione. Il più delle volte si soleva interpellare l’amministrazione petroniana per esortarla ad assegnare i posti di lavoro rimasti scoperti. Le suppliche (o memoriali), per la loro stessa natura, ci permettono di conoscere meglio i musicisti dell’epoca, sono importanti per raccogliere dati anagrafici, essendo documenti pubblici, ma autobiografici. Abbiamo diversi esempi in cui si richiedeva esplicitamente di vincere il concorso per la carica di professionista ufficiale della Cappella, nonché istanze di stipendi e denaro.
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