di Andrea R. G. Pedrotti
La Giornata Europea della Cultura Ebraica coincide, nel 2016, con il settantottesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali in Italia. La vergognosa esclusione degli ebrei dalle scuole si fa particolarmente significativa riflettendo, oggi, sul valore dell'interpretazione insito nella natura stessa di una lingua che costituisce l'affascinante filo conduttore degli incontri di quest'anno.
Leggi il servizio sulla Giornata Europea della Cultura Ebraica del 2015
VERONA, 18 settembre 2016 - Il 18 settembre 2016, nelle principali città d’Europa, si celebrava la Giornata Europea di Cultura Ebraica. Come sempre dialogo, confronto, apertura mentale e ragionamento sono state il centro degli eventi. Quest’anno il filo conduttore era costituito dalle lingue e dai dialetti ebraici, di insieme disparato di genti che, in seguito alla diaspora, hanno saputo mantenere la propria identità di popolo, arricchendo la propria cultura, apprendendo da coloro che incontravano sul proprio cammino. Una giornata non tanto dedicata ai dialetti, dunque, quanto alla profondità instancabile di pensiero e alla dialettica, autentica koiné del popolo ebraico.
Apprendimento e didattica sono il fondamento delle istituzioni scolastiche. La scelta di proporre questi incontri culturali di domenica è ormai codificata, ma la data del 2016 comporta una coincidenza che è difficile immaginare casuale, sebbene non sia stata dichiarata apertamente. Questo giorno è votato all’esposizione (forzosamente parziale) di una forma mentis e di un metodo che, più di ogni altro, ha saputo regalare progresso al sapere, almeno in epoca moderna e non può essere un caso, poiché questo sarebbe un pensiero semplificato e privo di consistenza, che proprio il 18 settembre di settantotto anni fa il più celebre quotidiano torinese proclamasse: “Il Consiglio dei Ministri delibera l’esclusione dalle scuole di tutti gli insegnanti e alunni nati da genitori di razza ebraica”, mentre, nella città di Trieste, veniva dato annuncio della promulgazione delle leggi razziali, poi enunciate con maggior precisione da un altro celebre quotidiano (questa volta milanese) l’11 novembre dello stesso anno. Il titolo era: “Le leggi per la difesa della razza approvate dal consiglio dei ministri: I matrimoni misti sono proibiti – La definizione di «ebreo», le discriminazioni e l’annotazione allo Stato Civile – L’esclusione dagli impieghi statali, parastatali e di interesse pubblico – Le norme concernenti le scuole elementari e medie e gli insegnanti”. Non dimentichiamo, in merito a quest'ultima limitazione, una cosa: in ebraico (lingua che sarebbe delittuoso tradurre) Torah significa proprio “insegnamento” o “istruzione”.
L’istruzione della lingua nei suoi aspetti e nelle sue sfumature è necessaria, perché la necessità è quella di leggere i testi in lingua originale, in caso contrario non sarebbe possibile entrare nell’età adulta con il Bar mitzvah (per i maschi) o il Bat mitzvah (per le femmine) e comprendere appieno la strada da percorrere nella vita, secondo le norme della Halakhah.
La giornata a Verona si è aperta con l’intervento del Rav Labi e ha avuto il suo centro pulsante nelle conferenze di Roberto Israel (da rammentare il suo impegno all’interno della “Associazione figli della Shoah”) e dell’insegnate di lingua ebraica presso la comunità veronese, Eli Levy.
La prima delle due lezioni, dal titolo “Le origini dell’alfabeto ebraico e i suoi segreti” e a cura di Israel, visto il tema trattato non poteva certamente tentare un approfondimento, poiché le origini di una scrittura come l’ebraico e quanto sta dietro a essa necessitano anni di studi e applicazione. Personalmente sono rimasto molto stupito dalla scelta, vista la difficoltà di esporre in circa un’ora un argomento di tale vastità.
Non citeremo qui i puntuali riferimenti fatti alla Kabballah, poiché questi, avulsi dal contesto della conferenza, e quindi da un discorso continuo, risulterebbero forvianti. Il fulcro dell’ora di lezione è stato, tuttavia, chiaro. Si è cominciato mostrando l’origine dell’alfabeto (di tutti gli alfabeti) a partire da un’immagine pienamente iconografica, che l’ebraismo rigetta. È logico, perché un’apparizione fisica impedirebbe il ragionamento, o –meglio- un percorso di ragionamento. Già la scrittura ne è un esempio nella sua evoluzione, a partire dall’alfabeto proto-sinaico, circa del 1.500 a.e.v. (questo acrostico sta per “ante era volgare” ed è l’indicazione convenzionale nelle datazioni delle culture non cristiane), fino all’ebraico che, comunque, ebbe delle attestazioni già nel decimo secolo a.e.v.
Se qualcosa c’era da imparare, attraverso analisi della struttura delle singole lettere (non tutte ovviamente) è stato proprio uno dei fulcri del pensiero ebraico: l’interpretazione. L’interpretazione è frutto d’un ragionamento continuo, che non può esser schiavo di un’immagine o di un’icona. Una signora in sala (le domande rivolte ai relatori sono ulteriori spunti di riflessione paragonati a quelli che potevamo porci noi stessi) ha domandato a Roberto Israel, dopo che egli aveva definito quanto la Kaballah nulla abbia a che spartire con la cabala: “Si può parlare di filologia, allora?”. Questa, come ha giustamente risposto il relatore, è la, cosiddetta, “mistica ebraica”, ma può pensarla in altri modi: filosofia, teologia, filologia, etc…
Personalmente questo discorso, sintetico ma puntuale, mi ha fatto riflettere su come questa sia l’autentica linguistica: la struttura della frase, la struttura e l’evoluzione dei grafemi, la posizione all’interno del discorso, l’inflessione nella pronuncia e molto altro. Tuttavia, riteniamo che questa metodologia d’indagine abbia grandissimi meriti scientifici, perché è la base ideale per formulare un’idea che proponga il rapporto fra significato e significante, che non può essere spiegato, né rappresentato, ma assume una forma solo nella soggettività del mondo interiore. Per la cronaca anche questo è nella Kaballah.
Un’altra domanda rivolta a Roberto Israel era relativa all’origine del termine “semitico”, ossia da “Sem”, figlio di Noé. Quest’altra signora chiedeva se ciò potesse essere un riferimento cronologico, ma la bibbia ebraica (chiamata Tanàkh) non dà precise indicazioni a proposito (almeno fino a Giuseppe nella Genesi). I patriarchi hanno vite lunghissime e, probabilmente, non reali: l’importante è la struttura e il concetto. Ogni cosa è consequenziale all’altra e tutto è collegato. L’entità superiore ha creato prima un mondo perfetto (l’Eden), poi, resosi conto, che l’uomo è imperfetto (questo gli ebrei l’hanno capito 4000 anni fa, altri vi sono forse arrivati solo dopo la rivoluzione borghese), gli ha dato la facoltà di fare guerre (senza parteggiare per l’uno o per l’altro, poiché sono tutti sue creature), ma ha anche posto l’umanità sulla torre di Babele. Nasce la confusione linguistica: è un problema, ma, almeno, si litiga meno senza capirsi.
La conferenza successiva, a cura Eli Levy, era titolata “Alef-beth, l’ebraico è per tutti”. Per ognuno è stato piacevole e interessante ascoltare la storia della palingenesi d’una lingua. L’ebraico era un idioma ormai solo rituale, che si era perso nel I secolo a.e.v. Ci fu, però, una riscoperta e, nel XVIII, vide la luce la haskalah (o illuminismo ebraico): si penava a quale potesse essere una lingua comune a tutti gli ebrei. Venne scartato l’Yddish, poiché un ebreo di lingua tedesca avrebbe potuto comprendere questa lingua senza sforzo, un italiano, no.
Alla fine fu Eliezer Ben Yehuda (filologo russo di famiglia chassidica) a far risorgere l’ebraico come lingua d’uso. Non fu semplice, poiché molti potevano vedere in questo un sacrilegio, uno svilimento della ritualità.
È stato simpaticamente ricordato un aneddoto che raccontò, a suo tempo, il celeberrimo scrittore Joseph Roth: poco prima del Primo Congresso Sionista si incontrarono Theodor Herzl (fondatore del Sionismo nel 1897) e Eliezer Ben Yehuda. Si raccontarono i rispettivi sogni: ossia far risorgere una lingua perduta da duemila anni e l’istituzione di uno Stato ebraico, che consentisse di sfuggire alle vessazioni che Israele aveva subito nei secoli. Entrambi ritennero l’idea del rispettivo interlocutore un’utopia, ma entrambi sbagliarono.
Una conferenza intensa quella di Levy, ma che ha anch’essa insistito (sulla base di interessanti annotazioni linguistiche) sull’importanza dell’interpretazione, del confronto e del “non fidarsi mai”. L’interpretazione, ancora una volta, sta alla base, ma fondata su un testo effettivo, su una nozione imprescindibile; è indicativo come venga rammentato sovente un detto ebraico, che recita “due ebrei, tre opinioni”.
La parola viene definita: “la porta sulla casa della mente”, essa, aggiungiamo noi, parte dall’astrazione concettuale da cui prende vita ogni nostra argomentazione. Essa viene anche paragonata alla magia, poiché rappresenta una forma astratta, capace di influenzare il mondo terreno. In effetti la parola, la lingua, la dialettica, la retorica, anche la sofistica a suo modo, ha il potere di influenzare, sedurre, attrarre, far sognare, fin plagiare il prossimo. Tuttavia, e questo l’aveva precedentemente rammentato Roberto Israel, molte parole ebraiche hanno un significato che è anche il suo contrario. Sta al libero arbitrio di ognuno di noi decidere se essere buoni o cattivi.
Si esce sempre soddisfatti da questi incontri e tornando a casa viene la voglia di riprendere fra le mani testi che, erroneamente, si erano lasciati da parte come il Sefer Yetzirah (il libro della creazione), il Bahir (libro dell’illuminazione), il Sefer ha-Zohar (il libro dello splendore), o lo splendido Sefer Yetzirah (il libro della formazione) e rivedendo, dopo tanto tempo, l’immagine dell’Albero sefirotico si ritrovano emozioni vitali che si pensavano sopite.
Chiudiamo con questa considerazione, dopo aver avuto la ventura di assistere a eventi di grandissima emotività, come l’inaugurazione del ricordo dei 500 anni del ghetto di Venezia [leggi il servizio], o riscoprire quanto del sentire ebraico fosse contenuto nelle note di Gustav Mahler, udite a Dresda a maggio [leggi la recensione].
L’appuntamento è per l’anno prossimo e cogliamo l’occasione per augurare un buon 5777, in vista del prossimo capodanno ebraico del 3 ottobre.