di Roberta Pedrotti
Si è spento a Chicago Philip Gossett, indimenticabile protagonista della Rossini Renaissance che ci lascia l'eredità tangibile del suo lavoro di filologo e musicologo (quale belcantista delle ultime generazioni non si è ispirato alle sue variazioni e cadenze?), ma soprattutto quella ineffabile di straordinarie esperienze umane di cui è difficile non sentirci riconoscenti debitori.
Solo un paio di giorni eravamo a Pesaro per un Convegno della Fondazione Rossini, doverosamente aperto dalla dedica ad Alberto Zedda, scomparso men di tre mesi fa [Pesaro, la scomparsa di Alberto Zedda (1928-2017)]. Nemmeno il tempo di tornare a casa, riordinare appunti, ricordi, libri e giunge la notizia che un altro di quei giganti sulle cui spalle si è posata la Rossini Renaissance non è più con noi.
Oggi, 13 giugno 2017, è morto Philip Gossett, settantasei anni da compiere ancora in settembre, una malattia che si sapeva inesorabile, ma che fino a due giorni fa ci permetteva ancora di citarlo immaginandolo idealmente con noi, vivo e mentalmente attivo come lo avevamo visto per anni aggirarsi per le viuzze del minuscolo centro di Pesaro, nel triangolo fra il mare (la "Palla di Pomodoro"), il Teatro Rossini e il Palafestival di Viale dei Partigiani, passando per il Conservatorio/Auditorium Pedrotti e per Casa Rossini, allora anche sede della Fondazione.
Da qualche tempo, è impossibile non ricordarlo, l’antico sodalizio con Zedda si era rotto e si era tramutato in rivalità, sfociata nella clamorosa uscita dal progetto editoriale della Fondazione Rossini con Casa Ricordi per prestare il suo lavoro filologico alla tedesca Bärenreiter, per la quale uscì un’edizione critica del Barbiere di Siviglia alternativa – e di pochissimo precedente – a quella licenziata dallo stesso Zedda nel 2011. Furono fratture dolorose per tutti e di certo il temperamento dello studioso newyorkese non era meno sanguigno e vivace dell’(ex?) amico e collega milanese. Forse si erano anche accentuate differenti prospettive un tempo feconde. l'italiano di formazione umanistica e lo statunitense che scomponeva e ricombinava sinfonie ad libitum (come nel catalogo della mostra bolognese Viaggio a Rossini) e ambiva a inventariare temi e autoimprestiti. Il tempo smussa ogni spigolo a e se, come in questo caso, gli scontri nascono sul terreno della passione comune oggi sono convinta che prevalga in tutti l’affetto incrollabile ed eguale, come la riconoscenza, per i due giganti che se ne sono andati uno dopo l’altro nel giro di poche settimane. Non potrebbe essere altrimenti per chi ricorda la verve straordinaria, la passione coinvolgente con cui teneva le sue conferenze, cantando e suonando esempi, raccontando senza mai stancarsi le vicende di riscoperte ed edizioni critiche, perché sempre poteva trovarsi di fronte qualcuno che fino a quel momento le ignorava, perché rinnovare la conoscenza e la consapevolezza non era mai invano. Né si può dimenticare la cordialità, la disponibilità con cui rispondeva alle domande, si prestava per il dialogo, per il chiarimento. Difficile immaginare una persona che amasse più di lui l'opera italiana, la amasse visceralmente, tanto da voler condividere e comunicare con energia inarrestabile i suoi pensieri e le sue ricerche, da difenderle con veemenza, creativo e generoso ma anche, per altri versi, geloso e protettivo. Proprio all'avvicinarsi di una nuova edizione pesarese delle Siège de Corinthe è difficile non rievocare il tono fremente con cui condannava gli arbitrii delle fantasiose riprese storiche (in particolare quella diretta da Schippers con Beverly Sills). Tanto era affabile e amabile, quanto sapeva essere focoso e fiero. Da questo punto di vista, senza dubbio, lui e Zedda si somigliavano molto.
Così, mentre queste immagini si affollano nella mente, su ogni dibattito prevale il ricordo vivido della Pesaro di qualche lustro fa, che in agosto vedeva aggirarsi fra cantanti, direttori e registi, anche i volti allora familiari di quella valorosa generazione di musicologi. La sagoma tartarughesca di Alberto Zedda, Bruno Cagli con i suoi completi impeccabili anche nelle ore più calde e i suoi occhi a fessura, le chiome ribelli raccolte da Patricia Brauner, la folta barba allora ben più scura di Anders Wiklund, e la figura più alta e slanciata di Philip Gossett, aureolato di chiome già bianchissime. E già allora Catia Amati in segreteria, per non parlare delle stanze dei bottoni del Rof, di tutte le persone che ritroviamo ogni anno o che si sono avvicendate fra incarichi e uffici.
Quando ancora la "Palla di Pomodoro" era in versione bianco marmoreo sul prato, senza la vasca della fontana, nell’ultimo tratto di Viale della Repubblica si trovava un piccolo ristorantino, Ariston, con una graziosa veranda affacciata sulla strada, comodissimo per un buon primo o un fresco piatto estivo; spesso, pranzando lì, capitava di trovare al tavolo accanto la Trinità della Fondazione Rossini, Bruno Cagli, Philip Gossett e Alberto Zedda, di fronte a delle pennette al salmone o a un prosciutto e melone, sovente anche in compagnia di Gianfranco Mariotti. Oggi in pochi ricorderanno l’Ariston, uno di quegli angolini che scivolano via ai margini della storia: restano i volumi delle edizioni critiche, restano le testimonianze degli spettacoli, locandine, foto, registrazioni, restano saggi e pubblicazioni. Gli uomini e le donne che passeggiano pensosi o sorridenti, che conversano, che, da una parola detta per strada, ti conducono su, negli uffici all’ultimo piano di casa Rossini, per guardare insieme una partitura, le voci, i piccoli momenti, le divagazioni e le discussioni, un gelato in tutto relax o un boccone al volo, quelli restano nella memoria di chi li ha vissuti. Di noi che, come ammonisce Dante nel De Monarchia, arricchiti così da chi ci ha preceduti, c’impegnamo a fare altrettanto con chi verrà dopo di noi.
Grazie, Professore, per i saggi, per gli studi su Verdi o Rossini, per la passione di ricercatore e divulgatore, per la puntuta vis polemica di Dive e maestri, ma soprattutto per il ricordo del tono sorridente di quella simpatica cadenza americana, tassello prezioso nel mosaico di un tempo che adesso sembra consegnarsi sempre più all’aura del mito.