di Gina Guandalini
Il film svedese dedicato al tennista Bjorn Borg fa riflettere sull'evoluzione estetica (e le relative rivoluzioni) dello sport e sul suo rapporto con il cinema.
Alessandro Baricco proponeva alcuni fa, come soggetto delle sue conferenze, tre momenti chiave nel cambiamento dei gusti: la Callas, che scavava nel canto dilatandone i significati; il saltatore statunitense Dick Fosbury, che imponendo lo stile di salto “di schiena” sconvolgeva l’estetica dello sport; e Kate Moss, la modella inglese che faceva dilagare un ipermoderno look anoressico e “grunge” fin dai primi degli anni ’90.
Baricco dimenticava – o forse non aveva conosciuto – il tennista svedese Bjorn Borg. Tra il 1973 e l’81 Borg spazzò via un secolo di uno sport elitario e fantasioso e al tennis come si era sempre visto sostituì una disciplina eminentemente atletica e basata sulla potenza. Giocava come una schiacciasassi, tutto arroccato a fondocampo, intento a sparare imprendibili stangate. E con questa inaffondabile fisicità diventò, se non il più grande giocatore, il più grande vincitore della storia del tennis. Quando si diffuse la notizia che faceva palestra, soprattutto pesi, per molte ore al giorno, il grande pubblico fu sconcertato: un tennista non poteva essere “così”. Un vero re della racchetta era tutto tecnica, tutto fantasia, era scatenato, inventivo, elegante, leggero: quella leggerezza che faceva dell’australiano Rod Laver il padre nobile imbattibile del tennis mondiale.
Fino all’arrivo del giovanissimo Borg. Negli anni di liceo, invece di cercare di capire algebra e trigonometria, correvo al Foro Italico, agli Internazionali di Roma. Volevo capire Borg; spiegarmi perché un ragazzo così platealmente odiato dal pubblico stava avanzando, stangata dopo stangata, vittoria dopo vittoria, verso il trionfo inevitabile. Al bar del Foro me lo trovai accanto (non era ancora un superdivo); non era alto come immaginavo; beveva una Coca-Cola, si guardava intorno con i piccoli occhi celesti senza mostrare curiosità o buonumore o noia. Con poche parole in buon inglese mi concesse una foto autografata. Poco dopo, un pubblico maleducato e aggressivo – soprattutto i giovani – lo attendeva al varco in semifinale e non gli perdonò di giocare meglio dell’italiano che aveva di fronte. Sfottò e buh al momento di alcuni pochi errori, apostrofi e commenti pieni di rabbia ad ogni palla in suo favore; rabbia destinata anche a quella parte del pubblico che con fair play probabilmente “non romano” lo applaudiva. In sostanza, un partito preso, molto più da stadio di calcio che da Internazionali di tennis, che esprimeva sostanzialmente una domanda rancorosa: come fa uno a vincere giocando così violentemente, così male ?
Sotto la tempesta della folla disapprovante il giovane svedese si rivelava totalmente privo di sistema nervoso: non un’occhiata, non un gesto di reazione, nulla faceva pensare che si accorgesse di avere un pubblico. Nell’accompagnamento continuo di fischi e di applausi polemici andava avanti, assolutamente indifferente. Borg, dello sport britannico che stava sommuovendo e mutando, conservava questo: l’incapacità di comportarsi scorrettamente, il sangue freddo più assoluto. Dopo tre ore vinse molto bene, dove un non-nordico si sarebbe lasciato almeno in parte deprimere o innervosire. In seguito si sarebbe capito che quella sorprendente lezione di volontà cambiava radicalmente il gusto degli spettatori.
Adesso, un film svedese dal titolo Borg del regista danese Janus Metz Pedersen (finora noto soprattutto per un eccellente documentario sulla guerra in Afghanistan intitolato Armadillo ) è stato presentato come evento d'apertura al Toronto Film Festival. E’ già in visione a Londra e arriverà nelle sale italiane dal 9 novembre. Fuori dalla Svezia si intitola Borg/McEnroe, in quanto il trenta per cento della storia si incentra sul grande duello, svoltosi a Wimbledon per la finale del 1980, tra l’impassibile svedese e un campione estroverso e nevrotico quale l’americano John McEnroe. Sulla carta dovremmo assistere a uno scontro tra due titani di segno opposto; in realtà la sceneggiatura di Ronnie Sandahl insinua che i due campioni avevano più in comune di quanto si sospettasse all’epoca. Il ghiacciaio Borg teneva sotto ferreo controllo il proprio vulcano interiore, possedeva un meccanismo che impediva quelle esplosioni che hanno reso proverbiale McEnroe .
La finale di Wimbledon del 1980 ha segnato la storia dello sport; il regista danese può contare per l’epico scontro sull’attore svedese Sverrir Gudnason – celebre in patria e sorprendentemente somigliante a Bjorn – e su un divo bizzarro come Shia LaBeouf , divenuto famoso in Transporters, le cui intemperanze e pubbliche arrabbiature lo hanno addirittura portato a un arresto per ubriachezza molesta. Nel film assistiamo a escandescenze di McEnroe contro gli arbitri e contro i giornalisti. Si è scritto che, in chiave di musica pop, quello storico match fu uno scontro tra gli Abba e i Sex Pistols.
Il cinema ha già raccontato incontri sportivi che sono scontri di storie umane e di personalità. Wimbledon è un film del 2004, diretto da Richard Loncraine. Si tratta di una ricostruzione del personaggio del tennista croato Goran Ivanišević. McEnroe vi figura nei panni di se stesso, come cronista sportivo, ma anche il personaggio del campione rivale, esibizionista e imprevedibile, è ispirato a lui. Gli ultimi venti minuti seguono il match finale creando tensione autentica. Più di recente, Senna di Asif Kapadia (2010) avrebbe voluto concentrarsi sulla vita del mitico pilota brasiliano Ayrton Senna ma si focalizza sulla sua rivalità con il francese Alain Prost. Rush di Ron Howard (2013) contrappone invece il corridore gentleman James Hunt a un freddo e calcolatore Niki Lauda (il nostro Pierfrancesco Favino è Clay Regazzoni).
Il protagonista di Borg/McEnroe è senz’altro Borg, e assistiamo a un giorno nella sua vita di megastar della racchetta, stretto in interni claustrofobici, sorvegliato da “controllori” oscuri vestiti elegantemente. Bjorn vorrebbe probabilmente uscire dalla gabbia, ma altro non conosce che tennis e vittorie. Questo fin dall’infanzia e adolescenza - e qui lo incarna Leo Borg, figlio quattordicenne dello stesso Bjorn - quando gli viene detto chiaramente che il suo strato sociale non è destinato a produrre campioni di uno sport così elitario. Le sue antiche rabbie sono state incanalate così. Appare anche il mentore e consigliere di Borg, Lennart Bergelin, benissimo interpretato dall’attore svedese Stellan Skarsgård. Nella carriera stellare dello svedese arriva questo americano di origine irlandese che intuisce di avere davanti se stesso, ma domato e incarcerato dalla volontà e dalla disciplina.
Svariate scritte che compaiono sullo schermo vogliono esplicitare ciò che accade e accadrà, ma mi sembrano abbastanza inutili. Nell’insieme il film probabilmente risentirà della inferiore popolarità del tennis rispetto al calcio, all’automobilismo o al baseball; ma è una intelligente radiografia di due personaggi dello sport potenti e singolari.