di Roberta Pedrotti
Diffusi i risultati del Festival Verdi 2017: se a Parma, giustamente, si festeggia è perché il programma ha saputo finalmente convincere assumendosi anche dei rischi, a conferma che è la qualità e la capacità, ponderata, di osare senza crogiolarsi nelle certezze a determinare il successo di un'iniziativa.
Parma, i risultati del Festival Verdi 2017
Parma, i titoli del Festival Verdi 2018
Il Teatro Regio di Parma divulga i numeri relativi all'ultima edizione del Festival Verdi e lo fa con motivato orgoglio vista la crescita non solo di presenze, incassi, pubblico internazionale, indotto cittadino, ma anche di eco mediatica, sia pubblicitaria (certo, giova all'immagine del Festival e fa piacere vedere anche nelle stazioni ferroviarie scorrere locandine e manifesti verdiani, ma quelli son pur sempre spazi in vendita) sia, ed è quel che più conta, spontanea, con un'incidenza sui social network a tratti perfino febbrile fra gli appassionati, come in molti avremo avuto modo di constatare direttamente.
Son tutti dati gratificanti, che servono ribadire la vitalità e il potenziale del festival, a incoraggiare e motivare sia i vertici del teatro sia istituzioni, sponsor e partner storici e potenziali, nonché a porsi come ulteriore monito ed esempio per chi, dopo infinite dimostrazioni del contrario, pensa ancora che con la cultura non si mangi, che si tratti di iniziative d'élite e amenità varie.
Non ci metteremo, dunque, a ripassare al setaccio numeri e statistiche per trarne ulteriori conclusioni, ma porremo l'accento su un altro aspetto significativo, vale a dire il successo determinato da un progetto artistico.
Un progetto artistico significa anche identità, e dal 2001 a oggi l'identità del Festival Verdi aveva ondeggiato fra segmenti non sempre contigui, dalla stagione del centenario imbastita da Bruno Cagli (con il giusto piglio musicologico nel programmare una Norma filologica e una Traviata nella versione del 1853, ma esiti artistici altalenanti) alla direzione musicale di Bruno Bartoletti (e se non fu tutto oro, un Macbeth bruttino è stato bilanciato, per esempio, da un Trovatore di successo, da una buona Giovanna d'Arco in edizione critica, dal rispolvero di Alzira). I rovesci economici e amministrativi del teatro e della città – con la cruciale transizione dallo storico sindaco Ubaldi al contestato delfino Vignali fino al recentemente rincofermato ex outsider Pizzarotti – non hanno certo giovato allo stabilizzarsi delle sorti del Regio e del Festival, che hanno passato momenti bui e si sono trovati anche a dover rinunciare a qualche ambizione musicologica allettando il pubblico più tradizionalista, a puntare sul Verdi nazionalpopolare talvolta a discapito della natura propositiva di un festival monografico di respiro internazionale. I vespri siciliani in italiano e con vari tagli, l'eterno ritorno di Rigoletti più o meno simili, locandine che prudentemente continuavano a puntare su una ristretta rosa di nomi amatissimi dal loggione locale (Leo Nucci su tutti): anni, gli ultimi, non privi di bei momenti, ma generalmente poco stimolanti.
Tutto al contrario il Festival Verdi 2017, dopo un 2016 di rodaggio e con l'inciampo di una Giovanna d'Arco inspiegabilemte ricondotta alle censure ottocentesche, ha messo subito chiare carte in tavola a proclamare come l'attuale gestione (nello specifico Anna Maria Meo e Barbara Minghetti) intende la manifestazione, senza compromessi ma con un saggio equilibrio nelle scelte artistiche. In primo luogo ci si dota di un comitato scientifico e si pone a capo un direttore musicale intelligente e moderno come Roberto Abbado, il che dice subito chiara una cosa: qui Verdi lo si vuole eseguire come si deve, in edizione critica, lingua originale, senza tagli, facendo ascoltare anche l'alternativo e l'inconsueto. Ed ecco Jérusalem e Stiffelio, la prima di rarissima esecuzione (in Italia, perlomeno, si conterebbero negli ultimi trent'anni giusto l'edizione parmigiana del 1986, quelle di Genova del 2000 e di Fidenza del 2013), la seconda più frequentata ma non certo delle più popolari. Ed ecco con loro Falstaff e La traviata, ché Festival non significa snobbare il noto per l'ignoto, ma ricercare con mente fresca e proporre degli stimoli, degli spettacoli che abbiano qualcosa da dire. Cosa che indubbiamente è nelle intenzioni di chi programma La traviata ma la affida a un cast e a un regista giovani (non certo agé è il maestro Rolli, ma ha comunque maggior esperienza e notorietà), di chi ci fa godere di un bel Falstaff fresco e moderno affidato a Riccardo Frizza, che a Parma aveva debuttato proprio con la stagione verdiana del 2001, e Jacopo Spirei, con un cast assolutamente degno del contesto. Per non parlare poi del fittissimo calendario di concerti ed eventi d'ogni sorta.
La cifra di ogni spettacolo contribuisce a fornire la cifra complessiva di un festival che vuol essere equilibrato ma non scontato. Non posso negare che tutto l'armamentario di stilemi tipici di De Ana, fra scene costumi luci e coreografie, esibito nella Jérusalem mi abbia un tantino annoiata, ma non posso nemmeno negare che, se si vuole uno spettacolo iper tradizionale, optare per il regista argentino sia ancora una scelta più che valida e, soprattutto, che altri l'abbiano grandemente apprezzata, avvicinandosi più facilmente a un'opera di rara esecuzione che, comunque, costituiva un piatto ghiotto e sofisticato, impreziosito dalla performance superlativa di Michele Pertusi, beniamino del pubblico parmigiano e cantante di somma intelligenza che ben merita un posto d'onore nelle locandine del Festival.
La cornice rassicurante di Jérusalem fa il paio con l'eccezionalità dello Stiffelio: il menù è pensato assai bene ed è difficile che lo si trovi sbilanciato, che non si assapori almeno un boccone prelibato per i propri gusti.
Stiffelio, peraltro, è stato un volano pubblicitario eccezionale: sono bastate pochissime parole, alla prima presentazione del cartellone, a destare un vespaio. Il pubblico avrebbe assistito allo spettacolo in piedi: ecco una ridda di commenti preventivi rimbalzare sui social network, dove le comunità di appassionati di qualsivoglia materia non vedono l'ora di giudicare e polemizzare su ogni notizia, soprattutto su ogni annuncio di iniziative fuori dall'ordinario. Forse nemmeno dell'inaugurazione della Scala si discute tanto e tanto animatamente prima non solo che lo spettacolo vada in scena, ma anche che inizino lo prove, che si intraveda un bozzetto. Riccardo Muti cavalca l'onda e fomenta quegli stessi loggioni con cui qualche lustro fa battibeccava per una puntatura o un taglio, la stampa gongola intervistando questo e quello, negli uffici del Regio si immagina pure qualche sorriso compiaciuto per tanta attenzione, non priva di alcune occasioni di riflessione interessanti, anche se non mancheranno le inquietudini sull'esito finale di uno spettacolo già nell'occhio del ciclone. Per di più, quando l'opera finalmente prende forma, il perbenismo ipocrita della comunità religiosa di Stiffelio si associa ai moderni movimenti per la discriminazione dell'orientamento sessuale e dell'identità di genere. Vedere le “sentinelle in piedi” all'opera è sicuramente un altro bell'incentivo alla discussione, soprattutto ma non solo alla discussione a sproposito.
In realtà tutto è perfettamente logico e lineare, forte e deciso ma coerentissimo, come d'abitudine con un uomo di teatro e un musicista del calibro di Graham Vick. Il clamore si è levato intorno a un'autentica sostanza. Al Teatro Farnese l'opera in senso tradizionale non si può fare, e se si fa viene male per questione di spazi e acustica, si potrebbe lasciar perdere, ma in un festival le sfide devono essere il pane quotidiano, se non bastasse il fascino seduttivo di un luogo comunque bellissimo che per foyer può usare sale con Canova e Guttuso in bella vista, per guardaroba nientemeno che la Biblioteca Palatina. Dunque, aboliamo gli spazi tradizionali, uniamo l'azione teatrale al pubblico, che deve muoversi con gli interpreti, starsene “in piedi” come le famigerate “sentinelle”. E, dunque, l'opera decontestualizzata in forma atipica e sperimentale è un evento a sé, diventa una manifestazione indetta dai fanatici seguaci di Stiffelio, il leader spirituale che ha una famiglia perfetta, purché non si scopra che la moglie è insoddisfatta, succube di un padre ossessionato dalle apparenze, trascurata da un marito tutto preso dalla sua missione, facile preda delle profferte erotiche di un ragazzotto pure membro della comunità, che, per insabbiar tutto, ci scappa il morto e si sfiora il divorzio.
La drammaturgia funziona, lo spettacolo è un meccanismo a orologeria che garantisce precisione musicale e perfetta interazione fra gli interpreti e il pubblico. E proprio qui, al di là anche della vicenda e dei suoi riferimenti all'attualità, sta il cuore di questo Stiffelio, il suo essere uno spettacolo sul teatro, un'esaltazione sublime della finzione e dell'immedesimazione, liberatoria, inebriante. Il pubblico è voyeur e attore in prima persona, possiamo decidere di stare al gioco, immedesimarci, cantare con il coro, abbracciare i “confratelli” assasveriani, indignarci, tremare, ballare ai loro canti (ebbene sì, può capitare perfino a chi è sempre stato l'antitesi della danza di muoversi al ritmo di questi inni), decidere scientemente di recitare, stare al gioco e percepire con godimento il confine sottile fra consapevolezza, autoinganno, identificazione, straniamento. Insomma: la magia del teatro, a tutto tondo, a trecentosessanta gradi, un'immersione totale e rigenerante. Qualcosa che, ovviamente, può esistere nella proposta sperimentale di un festival, nello stimolo a osare per poi tornare a sedere composti di fronte a un palco tradizionale.
Ma intanto lì sta l'identità vincente di un festival, nel non temere le reazioni e ripetere prudenti e passivi quel che già si conosce e, dunque, può esser chiesto. Un festival deve non solo rispondere a una domanda, ma anche prevenirla e crearla. Può andar bene o meno bene, nel qual caso ci si può rialzare e ricominciare comunque con nuove consapevolezze e senza rimpianti. Qui il problema non si è posto, tali e tante sono state le voci d'approvazione, tante le belle chiacchiere inaspettate con il loggionista di vecchia data o la ragazza al banco dell'osteria che ti raccontano di come si siano goduti lo “Stiffelio in piedi”, senza rimpiagere il prezzo (effettivamente salato: unico neo dell'operazione) del biglietto. Ma di Graham Vick non ce ne sono molti in circolazione: non conviene imitare i suoi exploit, né tutte le idee alternative future possiamo aspettarci avranno eguale impatto: l'importante sarà provarci, provarci sempre e continuare a offrire senza timore un Festival Verdi che renda onore allo spirito intellettualmente onesto e curioso del suo nume tutelare. Un Festival che sappia coniugare equilibrio, gusti e tendenze diverse con un'offerta plurale che continui a coinvolgere il più possibile il territorio. E non per frasi fatte o con il marketing alla buona Belcanto&Culatello, ma con un vero progetto culturale.
Già l'idea di vedere, nel prossimo autunno, Le trouvère come ulteriore esplorazione dei rapporti fra Verdi e Parigi fa ben sperare: in bocca al lupo!