di Andrea R. G. Pedrotti
Nel quadro del centenario degli accordi fra Austria e Albania, fra le numerose iniziative promosse dai due Paesi, il Teatro d'Opera e Balletto di Tirana ha deciso di portare in scena la più celebre, e forse rappresentative, operette d'Austro-Ungheria, Die Fledermaus.
TIRANA - Die Fledermaus è una composizione che rispecchia appieno l'identità viennese sia nella drammaturgia, sia nella scrittura musicale, in quanto tutti i rapporti relazionali e le peculiarità caratteriali della borghesia locale sono rappresentate con ironica, quanto impietosa precisione.
La celebre operetta di Johann Strauss II non può essere ascritta pienamente a un genere comico, bensì a quello semiserio (ricordiamo che a Vienna esisteva anche il genere dell'operetta “seria”), poiché l'allegria che la innerva figura semplicemente l'infantilismo che pervadeva una città che ebbe, e ha ancora, la sua fortuna e dote migliore nell'analisi e nella produzione di sogni, capaci di trascinarci in un immaginario etereo quanto in un incubo. Non a caso Vienna venne definita, pochi anni prima della Grande Guerra, “il laboratorio per la fine del mondo”. Dalle difficoltà, l'ex capitale asburgica seppe produrre le manifestazioni umane, intellettuali e artistiche più eclatanti. Tutto nel nome del sogno, che - ricordiamolo - in tedesco si chiama Traum, e anche Die Fledermaus nacque da un trauma, ossia il tragico crollo della borsa viennese del 1873. Forse per questo il regista e coreografo, Renato Zanella, ha deciso di incentrare la produzione su un orologio che non è solo l'oggetto con cui Gabriel von Eisenstein tenta di sedurre al ricevimento del principe Orlofsky le componenti femminili del Wiener Hofballett (come intenzione iniziale), poi la cameriera Adele (che si fingeva l'aspirante artista Olga) e la moglie Rosalinde (che si fingeva un'ignota dama ungherese), ma anche simbolo del tempo in senso lato. Dopo l'Ouverture, infatti, le lancette del grande orologio riportavano il tempo indietro, mentre Falke si aggirava sul palco approntando una scena che sarebbe stata teatro della sua vendetta per la goliardata subita anni prima da Eisenstein. Si torna indietro nel tempo, alla loro giovinezza, ma anche a un mondo che sognava di mantenere intatto uno splendore, ormai destinato al declino. Anche questo un sogno, un presagio traumatico per i viennesi, acuito dalla crisi dell'anno precedente (1873). Nel primo atto l'impostazione registica è classica, ma efficace nel descrivere gli equilibri (perversi) fra i protagonisti che trattenevano a stento (in primis Rosalinde) le proprie pulsioni di erotismo e trasgressione. Il secondo atto è parimenti emblematico della Vienna della Finis Austriae e rammenta la letteratura di Arthur Schnitzler. Orlofsky è un personaggio inquietante (lo era ancor di più nei dagherrotipi della prima assoluta del 1874), ermafrodita come Lucifero si diverte a maltrattare e provocare tutti gli ospiti. Questa sua natura è acuita nella regia di Zanella che fin dal suo incedere sulla scena gli fa porgere una pistola a tamburo con la quale il principe si diletta al gioco della roulette russa.
Bella l'idea di far tentare una seduzione palese, e non solo accennata come solitamente accade, di Eisenstein ad Adele, subito dopo l'aria “Mein Herr Marquis”, interrotta solamente dall'arrivo della moglie e della seconda scena di seduzione (questa volta ai danni della consorte travestita) nel duetto “Dieser Anstand“. Al termine dell'atto, sul fondo riappare il grande orologio che riporta tutti fuori dal sogno (anche questo traumatico) della festa di Orlosky. I giochi sono finiti, scoccano le sei e Eisenstein deve correre per costituirsi dopo la condanna comminatagli per oltraggio a pubblico ufficiale.
Terzo atto curato, ambientato in prigioni viennesi dall'arredamento incredibilmente simile a quello dell'abitazione di Eisenstein.
Considerato che l'evento era inserito nel contesto dell'anno di relazioni culturali fra Austria e Albania, sia la regia, sia le coreografie sono state affidate al m° Renato Zanella, per anni a capo del Wiener Staatsballett e sovente impegnato nella realizzazione delle coreografie del Neujahrskonzert der Wiener Philharmoniker trasmesso ogni hanno in mondovisione dal Musikverein di Vienna.
In un'operetta che aveva ispirato allo stesso autore numerose polke, quadriglie e walzer (Tik-Tak-Polka, op. 365, Du und Du, op. 367 o Fledermaus-Quadrille op. 363) non potevano mancare svariate coreografie, assai utili a rappresentare il senso di irrealtà (fra l'inquietante e l'ironico) del secondo atto, inserite durante il Couplet dello Champagne, nel finale dell'atto, oltre che nell'Ouverture e nel breve intermezzo a conclusione del II atto, in questo caso inserito in principio del III. Di queste coreografie sicuramente quella che, almeno personalmente, abbiamo trovato più interessante è proprio l'ultima, perché sembrava riassumere il rapporto fra uomo e donna contenuto in questa operetta: i ballerini maschi, infatti, vengono quasi trascinati sul palco dalle colleghe che sembrano intraprendere con essi una lotta, una disputa che, ovviamente, le vede vincitrici.
Sempre sul piano registico il momento più emozionante della produzione è stato l'esecuzione dello splendido concertato “Brüderlein und Schwesterlein”, con i minuti movimenti del corpo di ballo, comandati dall'invito alla licenziosa trasgressione di Falke, e una visione d'assieme ben associata alla musica di Strauss. Questo è stato, molto probabilmente, il momento più applaudito dell'intera produzione.
Questa è stata Die Fledermaus al TKOB di Tirana: una produzione che ha palesato la decadenza di una Vienna che, dalla crisi del 1873, si avvicinava al tramonto dello splendore che avrebbe avuto conclusione con la sconfitta nella seconda guerra mondialea. Una fine traumatica di un sogno che fu la grande Goldene Operettenära e della potenza asburgica, ma che ritorna nelle note di Strauss. Così sogno e rimembranza si fondono “Im Namen des Traums”.
Ovviamente non potevano mancare i brani aggiunti, tutti a firma di Strauss, la polka-schnell Éljen a Magyar!, op. 332, inserita proprio dopo la nostalgica Czarda di Rosalinde, che nel testo rimpiange l'Ungheria, patria della dama sotto le cui spoglie si era presentata da Orlofsky, e walzer Frühlingsstimmen, op. 410, eseguito in un'eterea coreografia da una coppia di primi ballerini.
La produzione prevedeva l'esecuzione dei dialoghi in albanese e del testo cantato in originale tedesco, affidandosi interamente a una compagnia di artisti stabili.
Nel primo cast fra tutti l'artista che maggiormente si è dimostrata capace di comprendere e trasmettere lo spirito dell'operetta viennese è stata il principe Orlofsky di Vikena Kamenica, mentre nel secondo abbiamo avuto la piacevole sorpresa della Rosalinde di Renisa Lacka, cantante che per capacità vocali e sceniche potrebbe a buon titolo essere protagonista in teatri di maggior prestigio.
Sul podio il direttore ungherese Lazlo Gyuker, specialista del genere in patria. Il giovane concertatore si dimostra musicista diligente e particolarmente efficace specialmente nella Czarda di Rosalinde e nel Frühlingsstimmen.
La prima del 31 marzo è avvenuta alla presenza di una rappresentanza diplomatica austriaca.
I due cast completi era composti da: Branimir Agovi e Denis Skura (Gabriel von Eisenstein), Eva Golemi e Renisa Lacka (Rosalinde), Armando Likaj (Falke), Vikena Kamenica e Ivana Hoxha (Orlofsky), Renata Qevani e Erinda Agolli (Adele), Erlind Zeraliu (Frank), Armaldo Kllogjeri e Elson Braha (Alfred), Gilmond Myftari (Blind), Dorina Selimaj e Simona Karafili (Ida), Genc Vozga (Frosch) e Sokol Tomorri (Ivan).
Corpo di ballo, tecnici e orchestra erano del TKOB di Tirana.